SI CHIUDE L'ASTA DEI PRIVILEGI di Mario Deaglio

SI CHIUDE L'ASTA DEI PRIVILEGI SI CHIUDE L'ASTA DEI PRIVILEGI c'è però un punto fermo, dal quale occorre partire: i pessimi risultati economici delle imprese pubbliche. Tranne alcune notevoli e lodevoli eccezioni, le imprese controllate dallo Stato sono meno efficienti e più indebitate delle corrispondenti imprese private o delle imprese estere con le quali il confronto è possibile. Il divario è cresciuto, così come è cresciuta l'ingerenza dei partiti e il tutto ha contribuito fortemente al ritardo del sistema-Paese Italia. Dato tutto ciò, appare chiaro che il governo deve decidere la politica di privatizzazioni non tanto guardando ai (relativamente pochi) quattrini che incasserà bensì avendo presente il risanamento di una parte fondamentale, strategicamente importante, dell'apparato produttivo del Paese che ne deve derivare. In altri termini, sarebbe non scio inutile ma addirittura dannoso privatizzare se, in qualche modo, insieme alle imprese si vendes- sero i loro privilegi, se i vecchi dirigenti inefficienti restassero al loro posto sotto un nuovo padrone; e sarebbe, in alcuni casi, ugualmente inutile privatizzare se si potesse realizzare il ricambio del ceto dirigenziale e il risanamento delle imprese mantenendole nell'ambito del settore pubblico. Bisogna poi considerare che l'Italia non è il Brasile o la Tanzania, non è, cioè, un Paese con una struttura imprenditoriale scarsa o nulla, per il quale qualsiasi cosa può essere meglio di una categoria di dirigenti interni incapaci, priva di ricambio. Non sarebbe accettabile vendere le imprese pubbliche italiane a gruppi esteri interessati a eliminare potenziali concorrenti chiudendone gli impianti e appropriandosi della loro quota di mercato. Con tutte queste limitazioni, la via che porta dal pubblico al privato appare stretta e quasi obbligata: un numero ristretto di imprese - probabilmente sufficiente a raggiungere l'obiettivo di 7 mila miliardi di entrate nel 1993 - è vendibile subito, purché esistano garanzie da parte degli acquirenti sulla loro attività futura. Come in Francia, lo Stato potreb- be costituire un sindacato di controllo, invitando a farne parte gruppi italiani e esteri, nessuno dei quali maggioritario e tutti impegnati a una strategia di lungo periodo. Esiste però un gruppo molto maggiore di imprese pubbliche nelle quali lo Stato stesso non si può esimere dal mettere ordine, sia che voglia poi vendere o no. La prospettiva di privatizzare domani non può essere un alibi per non risanare oggi. La sostituzione del ceto dirigente delle imprese pubbliche, là dove si è rivelato inadeguato, è un compito politico, fa parte di un rinnovamento che trascende il campo finanziario. Dopo l'unità d'Italia, il nascente Stato italiano procedette a una sorta di privatizzazione, e cioè alla vendita dei beni ecclesiastici confiscati. Uno dei risultati fu quello di farli cadere, a basso prezzo, nelle mani di arricchiti locali e di qui forse originano molte delle attuali cosche malavitose. Mentre affronta la sua seconda esperienza di vendita su larga scala di beni pubblici, l'Italia deve evitare un errore storico di quella portata. Mario Deaglio \

Luoghi citati: Asta, Brasile, Francia, Italia, Tanzania