Italia nera di Petri di Lietta Tornabuoni

Italia nera di Petri A dieci anni dalla morte Italia nera di Petri />j|jE' Giancarlo Giannini, I / un uomo che lavora alla televisione passando le 1 i proprie giornate chiuso —I da solo in una stanza a controllare sei monitor, ciascuno dei quali gli rovescia addosso «buone notizie» diverse: funerali di Stato italiani, carestie asiatiche, terrorismi, crimini, esplosioni, scandali, degradazioni della Natura. Ce la fredda trivialità che punteggia il linguaggio di termini genitali come di virgole. C'è una città-paesaggio, Roma, coperta d'immondizia. C'è gente che occupa il tempo con azioni ripetitive e insensate, con rapporti inautentici mossi da nessun vero desiderio, fonte di nessuna contentezza vera: mangiare senza fame, lavorare senza produrre né realizzarsi, fare l'amore senza emozione né piacere, guardare un libro senza leggere, parlare senza dire, patire senza dolore. Il titolo sarcastico è Buone notizie, il film è l'ultimo diretto nel 1979 da Elio Petri, che morì di cancro a cinquantatré anni in questo giorno dieci anni fa; nel 1982. Uno dei pochissimi registi italiani d'origine popolana (il nonno e il padre, artigiani, lavoravano il rame), romano, comunista, comunista dissidente dal 1956 e appartenente al gruppo della rivista Città aperta, critico di cinema, amico dei pittori e appassionato di psicoanalisi, aiuto regista, debuttante nel 1961 con L'assassino, autore di undici lungometraggi (tra i quali / giorni contati, A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, Todo modo), vincitore d'infiniti premi internazionali compreso l'Oscar, Elio Petri ha fama d'aver avuto nella sua opera molto bella un allarmante dono di premonizione o di profezia sulla realtà italiana. Magari era piuttosto lucidità, rifiuto della consolazione, intelligenza delle cose: e a testimoniarlo restano specialmente due film a suo tempo giudicati dalla critica imperfetti, violenti, estremisti, pamphlettistici, sommari. L'ultimo, Buone notizie, analisi della derealizzazione collettiva, è stato il primo film a esaminare la iper-mediatizzazione della società italiana, a descrivere la televisione come un invadente surrogato della vita. Diceva Petri, in un pomeriggio romano grigio quasi d'inverno, seduto a un caffè sul Lungotevere: «La tv popola la nostra immaginazione di fantasmi minacciosi, ci deruba del vivere, ci trasforma in nuovi monaci nella clausura dell'immagine. Strumento d'una società punitiva, t'immerge in un universo di pericolo e incertezza, ti violenta con le sue "buone notizie" che sono la versione contemporanea del "ricordati che devi morire" della regola monastica». Eppure, registrando i giorni contati d'una cultura non riteneva d'essere stato apocalittico: «Ho guardato al presente come uno che ama troppo la vita per non vedere quanto la stiamo rovinando». L'altro film esemplare di Elio Petri, Todo modo, 1976, ispirandosi al romanzo di Leo- I regista Elio P i nardo Sciascia affrontava il tema ora più bruciante: il disfacimento d'un sistema politico. In una capitale ammorbata da un'epidemia mortale, un gruppo di notabili democristiani si riunisce in una specie di convento per dedicarsi agli esercizi spirituali, visti come un estremo tentativo di recuperare quei valori religiosi che erano stati alla base della fortuna politica del partito. Il predicatore Marcello Mastroianni, prete ambiguo e tutt'altro che santo, grida dal suo pulpito: «Ho deciso che la prima meditazione... sia sul peccato personale. Ora, vi chiedo, qual è il vostro peccato personale? E' il peccato di un uomo di potere... il potere uccide, ha già ucciso... il peccato può essere perdonato solo se il maltolto viene restituito: danaro, crediti, fiducia, cariche, il potere stesso». Si inferociscono invece le lotte fratricide, definite «normali giochi di corrente» dal leader «M», recitato da un Gian Maria Volontè imitante la persona, i modi e l'eloquio di Aldo Moro: a uno a uno i notabili vengono uccisi, alla fine il giardino del convento è pieno di cadaveri denudati e il superstite «M» si farà ammazzare dal proprio autista. Negli anni di realizzazione e d'uscita di Todo modo, 1975, 1976, la democrazia cristiana attraversava una crisi paragonabile soltanto alla crisi attuale, originata dagli stessi motivi, aggravata dalle contemporanee vittorie elettorali non delle Leghe ma del pei, e dalla possibilità d'un «sorpasso» comunista. Il film di Petri, esplorazione in grottesco di quella crisi, «pamphlet violento» secondo Alberto Moravia, suscitò nell'establishment democristiano fortissima indignazione, reazioni crude, tentativi di opporsi alla distribuzione. Il regista ritorceva: «Todo modo è certo la metafora della morte d'un partito, dello sfacelo d'un gruppo dirigente, ma è una metafora infinitamente inferiore alla realtà. E' certo un De Profundis: ma di gente che, nella realtà, il De Profundis se lo canta da sé». La democrazia cristiana avrebbe seguitato a essere il partito di maggioranza relativa e a governare per altri quindici anni, sino a oggi. La televisione avrebbe continuato sempre più a occupare, condizionare e magari mutilare l'esistenza. I due film «maledetti» di Elio Petri seguitano a offrire un'analisi italiana nera, ma pertinente ancora adesso, ancora di più adesso: chissà se per l'impressionante lungimiranza del regista, o per la straziante lentezza del Paese nel compiere cambiamenti necessari. Una cecità morbosa, un'incapacità di guardare e vedere, era il soggetto dell'ultimo film scritto dieci anni fa da Petri insieme con Franco Ferrini. Non venne mai girato, la malattia arrivò prima. Sull'ultima pagina del copione è rimasto un appunto scoraggiato: «Anche il finale mi sembra ormai scaduto e non saprei dire perché. Forse sono proprio stanco del film. Non ne posso più...». Lietta Tornabuoni I regista Elio Petri

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