Il figlio jurij rompe il silenzio

Il figlio jurij rompe il silenzio Il figlio jurij rompe il silenzio Incontro a Mosca: Mio padre aveva ragione MOSCA DAL NOSTRO INVIATO La casa di Jurij Leonidovic è di quelle, classiche, del Comitato Centrale. Scale larghe e pulite, la portinaia ti squadra e vuole sapere da chi vai. E l'appartamento è grande, per gli standards sovietici. Tre stanze ampie. La camera da letto - dove campeggia un ritratto di Leonid Breznev e, in un angolo, un grande vaso con l'effigie giovanile del padre - è spartana: un letto-divano e un tavolo. Ma in casa ci sono tre televisori giapponesi e due videoregistratori. E, ricordo di antichi splendori, una collezione di cani in ceramica (132 pezzi, precisa orgogliosa Liudmila Vladunirovna, la moglie) che può valere una cinquantina di milioni. «Siete venuti per comprare? Scherzo naturalmente». Liudmila è molto più giovane del marito, tanto vivace e mobile quanto Jurij appare spento e immobile. Gli porta le sigarette (americane), prepara il tè, si aggira premurosa, gli aggiusta il pullover. «Tira giù il pantalone, non vedi che spuntano i calzini?», Jurij Leonidovic si lascia cullare. Ogni parola che pronuncia è preceduta da una lunga serie di ammiccamenti, di torcere di labbra, di sopraccigli che s'innalzano e tremano. E' sempre stato il ritratto di Leonid Breznev, ma ora che è vecchio la somiglianza è impressionante. Liudmila continua il suo cicaleccio: «Bisogna spolverarle, almeno ogni tanto, ma lo faccio solo quando vengono ospiti, per qualche anniversario. Le raccogliamo da trent'anni. Cominciammo quando eravamo poveri studenti, allora costavano pochi copechi. Poi siamo diventati più ricchi, o meno poveri, viaggiavamo, e la collezione diventò consistente. Vede? Questo è un Rosenthal...». Nello stesso palazzo, due piani sopra, vive Galina Leonidovna. Ma incontrarla è stato impossibile. Al telefono ha risposto con voce stanca, lontana. «Sto male, mi lasci in pace, non voglio vede¬ re nessuno. Ho dato un'intervista alla Bbc e mi hanno presentata come un'ubriacona. Le sembra giusto?». Forse non lo è. Ma si dice che Galina sia a pezzi. I giornali hanno scritto che ogni tanto passa qualche settimana in clinica, per disintossicarsi. Chissà se erano vere le storie - che il Kgb di Andropov faceva circolare - di traffici di diamanti e dollari che Galina e il suo amante smerciavano in Occidente durante le tournée all'estero del circo. La demolizione del segretario generale era cominciata proprio usando le debolezze di Galina, figlia infelice come accade a tanti figli di uomini potenti - e sregolata, capricciosa e troppo simile a lui per essere bella. Vi frequentate?, chiedo a Jurij. La risposta, come tutte le altre, viene laconica, dopo una lunga pausa che sembra una faticosa ricerca di parole che svaniscono nella memoria. «Certo, vive qui sopra. Non c'è nessun problema». Jurij Breznev si difende da un'intrusione che ha accettato a malincuore e che sembra stupito lui stesso di avere accettato. Non ha dato interviste a nessuno in questi anni. Come vive ora? Può descrivere la sua vita, divenuta del tutto privata dal 1986, quando fu allontanato bruscamente dal posto di viceministro del Commercio estero? «Sono perfettamente febee nella mia vita privata». In che senso? «In tutti i sensi». Perché andò in pensione? «Per ragioni di salute». Era la regola formale, allora. Ma anche per Jurij c'era pronto un dossier di accuse che circolò sui giornali: abuso di potere, corruzione, bustarelle. Non se ne fece niente. Come per Galina il processo divenne una inutile perdita di tempo. L'unico della «famiglia» che ancora soggiorna nelle patrie galere è il primo marito della sorella, Ciurbanov. Ma per lui la faccenda era più seria. Il matrimonio lo aveva portato fino al vertice della politica: vieeministro degl'Interni. «Io di politica non mi sono mai occupato». Jurij Leonidovic indovina i miei pensieri. «Al ministero mi occupavo di trasporti. Una trentina d'anni. Per otto anni in Svezia, alla rappresentanza commerciale. Poi a Mosca alla Promtechnoimport, che trattava metalli...», lo sguardo gli si accende per un attimo. «Ho fatto grossi contratti con l'Italia, con la Finsider. Dell'Italia ho un ricordo ottimo. Lei è stato a Pompei? Io ci sono stato, con Liuda. E anche a Portofino. L'Italia era il nostro terzo partner, dopo la Germania e il Giappone». Riesce a vivere con la sua pensione? «Il caffè lo abbiamo sempre». Quanto prende di pensione? «Non lo so. Eltsin ha raddoppiato le pensioni proprio ieri. Chieda a mia moglie». La casa gliel'hanno lasciata. Forse l'aiutano i figli. Cosa fanno i figli? «Tutti e due sono businessmen». Di successo? «Loro dicono di sì. Hanno fatto delle joint ventures. E ho quattro nipoti, tre maschi e una femmina». Come passa il suo tempo? «Mi alzo alle 6 e faccio una passeggiata nei pressi. Alle 8 leggo i giornali. La tv la guardo poco. Ecco tutto». Quali giornali? «Pravda e Kuranty, qualche volta anche Argumenty i Fakty». Giornali di orientamenti opposti... «Alla Pravda sono abbonato perché era il giornale del partito e io rimango un membro del partito. Kuranty è un quotidiano locale». Lei rimane convinto che la scelta socialista era giusta? «Nella teoria non vedo errori. In pratica lei sa com'è andata a finire, ma la teoria era giusta». Come giudica l'attività politica di suo padre? «Chi ha fatto l'accordo sul disarmo? E Helsinki? Cosa c'è stato di più importante, dopo? Niente». E l'Afghanistan? Leonid Breznev fu tra quelli che decisero... «Chi lo dice?». E' emerso recentemente alla Corte Costituzionale. «Io invece ho sentito dire che mio padre non c'entrava, che la decisione fu presa da quattro membri del Politburo...». Gromyko, Cernenko, Andropov e Ustinov? «E' possibile». Lei risponde da diplomatico. Ma ormai tutto questo appartiene alla storia. «Certo, ormai è storia. Ma mi dica lei: quando sono state ritirate le truppe dall'Afghanistan? Nel 1989. E quando è morto Breznev? Nel 1982. Ce ne hanno messo di tempo a ritirarle». In certe faccende è più facile cominciare che finire. «Sono d'accordo. Anche gli americani fecero fatica a ritirarsi dal Vietnam». Leonid Ilich passava molto tempo in famiglia? Parlava con lei di politica? «Era difficile radunare tutti. Ci si vedeva a cena, qualche volta. Ma di politica non si parlava mai». Accadeva che suo padre si consigliasse con lei? «Se dicevo qualcosa, mi prestava ascolto. Posso farle un esempio. Una volta a ima cena in Svezia Olof Palme disse al nostro ambasciatore, Maltsev, che avremmo dovuto dedicare più attenzione a Brandt. Questa informazione giunse a chi di dovere e cominciò così il miglioramento dei nostri rapporti con la Germania». Quindi lei ha fatto da tramite? «Io ritenevo che questa fosse un'idea giusta». Può ricordare qualcosa anche dell'ottobre 1964? «Penso che, oltre a tutti gli errori di Krusciov, ci fu anche il fatto che egli tolse a Breznev il posto di presidente del Presidium del Soviet Supremo. E' un dettaglio di non poca importanza». Si dice che fu Suslov il motore del complotto. «Tutti sanno che Suslov era l'ideologo». Secondo lei, aveva influenza su Breznev? «Non direi». Chi era più vicino a Breznev nel Politburo di allora? «Kirilenko, Sherbitskij, Ustinov». Breznev prese il premio Lenin come scrittore. Ma si dice che i suoi libri furono opera di una squadra di scrittori famosi. E vero? «No. Sono chiacchiere. Vi posso dire con certezza che ci ha lavorato da solo. Ma, naturalmente, non era un letterato. C'era una persona che dava al manoscritto una forma più o meno letteraria». Chi faceva questo lavoro? Jurij si sforza ma non ricorda. Neppure Liudmila, chiamata in soccorso, ricorda il nome dello scrittore. Torniamo allora a Krusciov. Aveva solo dei torti? «Posso farle io una domanda? Quando un capo di Stato si toglie la scarpa e comincia a batterla sul banco dell'Onu, questo le sembra normale e corretto?». Lei ha mai pensato che suo padre potesse sbagliarsi? «Mai». Giuliette Chiesa «Non parlavamo mai di politica Però a volte mi dava ascolto» Jurij Breznev