DEVALLE

DEVALLE A Monza un'antologica dal fotocollage agli ultimi pastelli DEVALLE AMONZA 1 Serrone della Villa Reale e nella Galleria Lorenzelli di Milano (fi Ino al 6 dicembre), Beppe Devalle riconquista alla pittura di vasto respiro e alla grande articolazione dell'immagine nei suoi più diretti valori espressivi un terreno spettacolare, una capacità di drammatizzazione che altri «media», altri linguaggi avevano potuto usurpare e conquistare per abbandono di campo: o da parte di chi esperiva i materiali, l'ambiente, il concetto o da parte dei nuovi accademici e dei nuovi manieristi, ivi compresa la maniera dell'espressionismo «selvaggio». Il bellissimo libro-catalogo della nuova editrice Charta con testi di Dario Trento, Minuta Lamberti e Paolo Biscottini dà conto del percorso di Devalle e ottimamente lo illustra. C'è il pop negli Anni 60; l'analisi rigorosa, monocromatica, a ingabbiature geometriche-spaziali, della fotoimmagine e del fotocollage per quindici anni; poi, a metà degli '80, il ritorno alla disciplina classica, addirittura illuministica, della matita colorata, del pastello per figure e nature morte, che ribaltano nella purezza ottica dello specchio - il brivido dello spettro di natura, l'antica amicizia giovanile con Pistoletto - il rigore calvinista, il cineocchio del quindicennio precedente. Una carta quadruplicata, con natura morta a pastello fra tecnologia e surrealtà, Le Frère Voyant del 1989, è all'inizio la rappresentanza pontiera fra quell'ultima esperienza e l'oggi. Ma la vera svolta, la scossa liberatoria dell'artista e, mi azzardo a dire, dell'arte in Italia oggi è collocata con calcolato effetto al centro della mostra. Intorno, esplodendo nei loro tre metri per quattro, Rebecca, Athos e Salvo urlano con i loro volti ossessivi, che ripercorrono il secolo da Picasso a Bacon a De Kooning, uno spettacolo violento che rievoca, con i mezzi e il linguaggio della tradizione e della contemporaneità, lo schermo del grande vecchio cinema sovietico e tedesco dei primi piani, contestando in tal modo i fantasmi elettronici del piccolo schermo video. In mezzo ad essi, con un contrasto al limite della «suspense», del fiato trattenuto quando, sotto il gran tendone del circo, l'acrobata si stacca dal trapezio per il triplo avvolgimento, Devalle propone la piccola, «illuminata» radice di quegli specchi deformanti del nostro secolo sfasciato, alla deriva. Espone due piccoli pastelli, incantevoli e incantati, ritraenti due volti anch'essi del nostro secolo ma lontani e perduti in una proustiana memoria «d'antan», quelli di Maria Bonaparte e di Virginia Woolf. In catalogo, con la tranquilla impudicizia della dichiarazione d'intenti del giocoliere che si sente (legittimamente) perfetto, realizzato, viene proposto il paragone con due pastelli settecenteschi di Liotard e La Tour. Ma, ed ecco il salto mortale, sotto l'assoluta, sofisticata eleganza anche psicologica delle due immagini (giustificando un altro brivido di ambiguità rispetto ai celebri e celebrati pastelli di Sutherland in preparazione dei grandi ritratti di personaggi illustri) si nasconde la fissità della fonte fotografica, di Giselle Freund. In effetti Devalle non ha per nulla dimenticato, per nulla rigettato il suo passato di sofisticata rielaborazione, fra concettuale e neodadaista, dell'immagine fotografica e della fotostampa, attraverso la chi¬ rurgia della lametta, il rasoio di Occam della grafite ingabbiante in una rete di geometria illusoria quell'immagine. Quel frammentare e ricomporre, quell'incidere con un rasoio altrettanto mentale quanto fisico sono stati prima riassorbiti dall'evidenza (apparentemente) immediata del dato ottico, della figura e dell'oggetto - spesso, emblematicamente, il trespolo dell'apparecchio fotografico -, sospesi però nello spazio bianco puramente mentale del foglio da disegno. Poi, oggi, sono esplosi nella fisicità colossale dei veri e propri teatri articolati qui proposti, come Palestra con le sue pareti alte tre metri e mezzo e il suo soffitto su cui si stampa ad angolo il guantone del pugilatore Big Gym. L'esplosione è complessa: dimensionale; di articolazione dello spazio e dell'immagine in sé, che ripercorre tutte le strade del secolo dalle Demoiselles d'Avignon ad una sorta di «vulgata» iperespressionista. Devalle non esita alla fine, in Hanna (la Schygulla), in Anita & Barbablù, a enfatizzare in dimensione iperrealista il modellato pittorico di Courbet o del Manet dell'OZympia. Da quel fulcro dello scarto, dello sbalzo (ma senza infedeltà, senza ribaltamento dei termini di fondo) dai due pastelli di lucidità settecentesca allo spettacolo, al limite della violenza, del dipingere e del formare alla grande scaturisce innanzitutto un senso e un messaggio di coraggio: di navigazione a vele spiegate fuori dalla palude della morte della storia. Marco Rosei Come un teatro dove l'autore fa esplodere le sue immagini DEVALLE «Nudo rosa» e «La grotta», due pastelli di Beppe Devalle. Qui accanto: «Robin Red» (1991) collage su cartone scatolato

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