La solitudine degli ebrei romani di Furio Colombo
La solitudine degli ebrei romani r La solitudine degli ebrei romani O di correre un rischio, nell'aggiungere una riflessione a ciò che è già stato detto sulla breve rivolta degli ebrei di Roma. Il rischio è che, mentre scrivo o poco dopo, accada qualche altra cosa altrettanto sgradevole e altrettanto imbarazzante. Infatti consideriamo «sgradevole» il comportamento degli ebrei che assaltano i naziskin («ma come, non dovrebbero essere tanto migliori, forti della pazienza dei secoli?»). E consideriamo «imbarazzanti» le gesta dei naziskin, al punto che le commentiamo e le studiamo meno del teppismo negli stadi. E, per analogia, abbiamo esteso quell'imbarazzo e quel silenzio alla «marcia dei cinquantamila», i fascisti sotto palazzo Venezia che gridavano «duce, duce». Dopo quella strana festa una parente smemorata dell'uomo che ha trasformato l'Italia in un desolato feudo della Germania, e ha decretato per legge la distruzione di una parte del suo popolo (gli ebrei italiani), ha dichiarato: «Noi non rinneghiamo niente!». I nostri media registrano e tacciono. Ora proviamo a metterci nei panni degli ebrei romani, che non hanno alcuna ragione di separarsi dalla loro memoria, che è una memoria di solitudine (chi c'era, il giorno del grande rastrellamento nel ghetto di Roma, a garantire per loro, cittadini italiani?). Del passato la nostra cultura si ricorda solo per dire «come sono stati buoni gli italiani». Certo, più dei tedeschi e dei francesi, ma un delitto è un delitto. Ci sono stati 6000 delitti contro gli ebrei italiani, bambini inclusi. E non una riga nei libri di storia, non una scuola, una piazza dedicate a quel martirio, non un giorno di raccoglimento, o mezzo metro di monumento, in una strada secondaria. La cultura italiana non è una cultura austera. Celebra di tutto. C'è da meravigliarsi se molti hanno interpretato quel silenzio come un'autorizzazione a pensare che l'olocausto forse è stato una esagerazione degli ebrei, una storia che si sono inventata da soli? E così la storia italiana corre, lieta di se stessa e liberata da un peso. E quando si trova di fronte la questione del sionismo - che qualunque maestro elementare potrebbe tra- durre ai bambini come «desiderio del popolo ebreo di avere una patria» - non ha difficoltà, a destra, a sinistra e al centro, a considerarlo «un oscuro complotto contro l'umanità». Nessuno si sente imbarazzato del fatto che l'autore di quella frase è il dottor Goebbels. Nel frattempo, come l'olocausto, l'addetto stampa di Hitler è stato dimenticato. L'accusa così com'è nei testi nazisti, viene raccolta dai palestinesi, dal mondo arabo. Il mondo arabo è violento, nella sua opposizione a Israele. Ma la cultura italiana ha comprensione per la violenza, quando è «di liberazione». Si irrita invece quando gli ebrei italiani dicono ad alta voce il loro legame, almeno d'amore, con Israele. E qui la trappola scatta, nasce il cerchio della doppia solitudine degli ebrei italiani. Nel primo cerchio l'olocausto è una questione dimenticata. Nel secondo, il legame d'affetto con Israele viene dichiarato «sionista» e il sionismo è un nemico. I naziskin sono ottusi fino a un certo punto. Vedono che il corridoio, per le loro scorrerie, è libero. Sanno come difendersi. Dicono «noi non siamo razzisti. Siamo anti-sionisti». Ecco la contraddizione di una cultura che concorre, senza saperlo, senza volerlo, con le ondate di vero odio razziale. Gli ebrei vengono isolati quando si identificano, come è accaduto nei secoli. Ciò avviene, oggi, attraverso la manifestazione di un legame con Israele. E subito si crea - si è creata per oltre un decennio una licenza d'aggressività culturale che poi qualcuno trasforma in aggressione fisica. Questo è il fondale della esasperazione e forse della disperazione degli ebrei romani. E' bene tenerlo presente nel giudicarli. Furio Colombo boj
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