Forchetta mia diletta

Forchetta mia diletta I saggi di Montanari: da Omero a Calvino Forchetta mia diletta La grande bouffe di poeti e scrittori ■m t| N uomo e ima donna visitano gli scavi di Monte Alban in Messico e vedoI no le gradinate dei temx. I pli, le piattaforme dei sacrifici umani. Sono davvero tanto lontani quei tempi? Orrore, sacralità e mistero turbano i due turisti. D'improvviso lui è colpito dai denti taglienti e forti di lei, ha la sensazione che possano penetrare nella sua carne, straziarlo, mangiarlo. Silenziosamente, segretamente quell'uomo e quella donna si immaginano come serpenti che si inghiottono a vicenda. Una sorta di cannibalismo universale «impronta di sé ogni rapporto amoroso»: gli uomini sono pasto a se stessi. E' imo degli ultimi racconti di Italo Calvino ed è l'ultimo brano di Convivio oggi, volume finale di un trittico dedicato a «Storia e cultura dei piaceri della tavola», come dice il sottotitolo (Laterza). Pagine di scrittori, poeti, filosofi e maniaci raccolte con brio dallo storico Massimo Montanari. Il primo libro si apriva con Omero: Agamennone sgozza un grasso toro di cinque anni prima dell'attacco finale a Troia. Un sacrificio propiziatorio, ma anche un modo per rendere sacra, e quindi legittima, l'uccisione degli animali, la carne sulla mensa. In questo spazio fra i due racconti, dal rito sociale in Omero all'inquietudine privata in Calvino, si consuma la parabola del cibo: ancora capace di sprigionare valori simbolici, ma con risonanze più imprevedibili e individuali. Dall'Ottocento a oggi - sembra di cogliere in questa terza antologia - è aumentata la consapevolezza, la confidenza col cibo. C'è in effetti con esso un rapporto, psicologico e pratico, più personale: anche a tavola si afferma definitivamente l'uso delle posate e dei piatti singoli con porzioni bell'e pronte, mentre prima, quando non ci si arrangiava con le mani, si preferiva ricorrere a poche posate in comune e attingere a portate collettive. Il fatto è che dal secolo scorso la fame della gente comincia a diminuire grazie a tre rivoluzioni: nel produrre, nel trasportare e nel conservare. Tramonta la cultura dell'abbuffata e i banchetti sono meno scenografici, meno sontuosi; non devono più ostentare ricchezza e potenza. I nuovi borghesi puntano al risparmio, alla riservatezza. Il gran cuoco della Belle Epoque, Escoffier, proclama: menù brevi, il tempo è oggi limitato. Il medico milanese Rajberti scrive a metà del secolo scorso L'arte di convitare spiegata al popolo ed esorta: siate parchi, non più di cinque o sei piatti. Vince la squisitezza meno tronfia e più affabile, le papille accendono i circuiti della memoria e della conoscenza. Esempio d'obbligo, Proust: assaggia la («paffuta madeleine» e gli esplo¬ de dentro un'intera città, la dimenticata Combray. Théophile Gautier, celebre anche per il suo gilet rosso-ciliegia, prova la «pasta verde» dell'hashish appena giunto dall'Oriente e scivola su onde di follia: «L'acqua che bevevo mi sembrava avere il sapore del vino, la carne si mutava nella mia bocca in lampone». Tre artisti si cimentano come cuochi. Toulouse-Lautrec brandisce un cucchiaio «alto quasi come lui» e prepara aragoste «avvolto in un gran grembiule bianco sotto al quale le sue gambe corte incespicano». Porta sempre con sé una piccola grattugia e una noce moscata per profumare il Porto che beve. Di un buon vino dice che «fa la ruota del pavone in bocca». Pascoli prende fari- na, acqua e sale e impasta una piadina: «O lieve staccio, io t'amo. Il tuo destino / somiglia al mio: tener la crusca; il fiore, / spargerlo puro per il tuo cammino». Gadda si infervora per il riso ancora avvolto nel pericarpo, «lacera veste color noce o color cuoio» attorno al chicco, ideale per «l'aurato battesimo dello zafferano» nel risotto alla milanese. Il cacciatore Carducci si diverte a descrivere uno spiedo gigantesco a tre piani, su cui girano una sotto l'altra sfilze di tordi, uccelletti e fegatelli di maiale: al piano terreno un tegame con olio, vino bianco e aromi raccoglie gli umori che piovon giù dai tordi e accarezzano uccelletti e fegatelli, e tutti insieme gli umori si riportano dal tegame ai tordi con un rametto di ramerino per «proseguire il giro infernale». In un'altra spiedata una trentina di merli «s'ebbero un chicco di pepe in culo». L'amico Goccino osserva: «Il sedere serve all'uomo». L'accresciuta consapevolezza del cibo porta anche ad analisi e a invettive deliranti. Nietzsche si scaglia contro la donna: «Non capisce che cosa significhino i cibi: e vuole esser cuoca!». Per colpa sua «l'evoluzione dell'uomo è stata rallentata per moltissimo tempo». Si diffondono sogni rivoluzionari del gusto. Apollinare teorizza il «cubismo culinario»: a una cena decanta le violette fresche senza stelo al sugo di limone, il controfiletto al sangue condito con tabacco da fiuto, le quaglie lardellate e cotte in sugo di liquerizia. Marinetti vuole 1'«aerocucina» e propugna l'abolizio- ne politica della pastasciutta, da cui deriverebbero «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo». Molto meglio il Cameplastico creato dal pittore futurista Fillia, che è un'«interpretazione sintetica dei paesaggi italiani»: consta di una grande polpetta cilindrica di vitello arrostito con undici verdure cotte. E si mangi senza forchetta né coltello tra musiche e profumi, con bocconi «simultanei» dai dieci o venti sapori. Si descrivono pasti favolosi. In Melville una balena è legata al Pequod del capitano Achab, la testa alla poppa e la coda alla prua, e il secondo ufficiale Stubb ne taglia via una bistecca e la addenta alla luce di due lanterne a olio, mentre nel buio i pescecani scavano «enormi pozzi tondi» nel «vasto cadavere» appeso della balena e vibrano violenti colpi di goda contro lo scafo. Alla mensa del capitano Nemo si offrono conserva di oloturie, crema di latte di cetaceo con zucchero di fuco, marmellata di anemoni. Il cibo sottolinea i rapporti e la verità di ogni uomo. Vittorini concentra in un'arancia la disperazione di un piccolo siciliano sul traghetto verso Messina. Nel Gattopardo cresce a tavola la complicità fra Tancredi e Angelica, «eccitata dalle luci, dal cibo, dallo chablis». Alla fine del pranzo, iniziato con un torreggiarne timballo di maccheroni, «Tancredi si chinò per raccattare il ventaglio di piume che Angelica aveva lasciato cadere». Ed è ancora a tavola, durante II pranzo di Babette di Karen Blixen, che riaffiora l'amore per la vita: nei commensali, prima bigotti e irrigiditi, «le vane illusioni di questa terra s'erano dissolte come fumo davanti ai loro occhi, ed essi avevano veduto l'universo come realmente esso è. Era stata loro accordata un'ora del millennio». Nel Sergente nella neve di Rigoni Stern un soldato italiano stravolto dalla fame bussa a un'isbà. Soldati russi stanno mangiando. Una donna prende un piatto, lo riempie di latte e miglio e lo porge al soldato, che racconta: «Il tempo non esiste. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini». Raramente oggi la tavola è festosa. Imperversa la dieta: il povero Sartre guarda la sua pancia e gli viene la desolazione, trema di paura «al pensiero di divenire un piccolo grosso calvo». Decide di consumare un pasto solo, di non bere, di non mangiare pane. Ma capitola, al mattino non può rinunciare al pane: «La colazione è un macigno. E' un'ora in cui sono larvale e di cattiva volontà, mi piace restare solo con me stesso ma mi ci vuole un pretesto, e il pretesto sono il caffè e le fette di pane. Se me ne danno salgo al settimo cielo, mi sento poetico e profumato». Nel culto ossessivo per il cibo magro ed esiguo, lo storico Montanari individua anche un'eredità di penitenzialismo cristiano: «Il piacere continua a spaventare», scrive. Sembra che parlino ancora un Rousseau (torniamo alla natura anche a tavola; i vegetariani sono più democratici) e un Pietro Verri (che la cucina sia razionale, non eccessiva). E i cibi arrivano da tutto il mondo e le stagioni sono dimenticate: si mangiano fragole anche in tempo di neve. Il menù è diventato universale, illimitato. Cuccagna è qui. Basta non cogliere le ombre che ci vengono incontro da tante parti del mondo. Claudio Atta rocca Carducci: spiedi a tre piani. Pascoli: piadine fatte a mano Da sinistra: «cacciator» Carducci ed il «soldato» Rigoni Stern Proust e (a lato) Vittorini Sotto: Cena di Carnevale

Luoghi citati: Carnevale, Messico, Messina, Troia