« Uno di noi alla Casa Bianca »

« Uno di noi alla Casa Bianca » Hot Springs ha celebrato il suo eroe insieme con mamma Virgine «Sono molto felice per mio figlio, ma poverino quanto si è stressato» « Uno di noi alla Casa Bianca » Notte di bevute nelpaese del giovane Bill NELLA TERRA DEL NUOVO KENNEDY HOTSPRDNGS DAL NOSTRO INVIATO Hot Springs, americani e gente di tutto il mondo, non sarà più una modesta stazione termale dell'Arkansas: le compete il titolo onorifico di «Boyhood Home of Bill Clinton», paese di Bill Clinton ragazzo. Così sta scritto all'entrata del paese. Anzi, così era scritto, perché oggi stesso hanno deciso di sostituire la targa in fretta e furia: BUI, per quanto sia uno di qui, per quanto abbia chiacchierato con tutti da sempre e sia uno dei nostri, non può essere chiamato così poco rispettosamente per nome e per cognome, che diamine: Bill fra poco va a Washingotn e dobbiamo fargli fare bella figura, che diamine. Quindi, nuova insegna: «Welcome in Hot Springs, Boyhood of President Clinton». Così va molto meglio. Ma il paese di BUI è ubriaco di felicità, la gente si è svegliata stamattina con l'hangover, i postumi della sbornia. E del resto, di che meravigliarsi: la festa è durata fino all'alba, come e più che a Little Rock, specialmente nei saloni grandiosi e squallidi dell'hotel Majestic dove il «Seritinel Record», gazzetta locale, ha invitato tutti i paesani a divertirsi, brindare, ballare, ubriacarsi. Si raccomandava, nell'invito, di vestirsi «Clinton Style», come se un tale stile esistesse. Ma la gente di questo paese si è data da fare e così sono andati quasi tutti chi in frac, chi con la felpa della campagna elettorale, abiti lunghi e scarpe da tennis - i democratici sono informali - anche se prevalevano le grisaglie per i gentlemen e i vestiti eleganti per le signore. In ogni caso, tutti sbandieravano i bottoni appesi al colletto o al taschino, con le teste dei quattro vincitori della Gasa Bianca, Bill e Hillary Clinton, Al e Tipper Gore. Il cibo era gratis, ma la birra e gli altri beveraggi a pagamento. 'l'primi 'si' sono 'presentati con un'ora di anticipo, e cioè alle sei del pomeriggio. Verso le sette era tutto pieno. Mancava però e.tutti la reclamavano, la star della serata, che sarebbe arrivata soltanto molto più tardi, dopo essere stata a brindare e gridare con il figlio. Mancava a Hot Rods Virgine Kelly, che a metà pomeriggio se l'era svignata insieme alla fida John Ette Taylor (il nome non inganni: è femminile), responsabile a Hot Springs per Clinton & Gore, per andare a chiudersi a Little Rock nell'hotel Carnei, dove si è svolta la festa dei vincitori: una festicciola intima per appena quattrocento invitati selezionati, ai quali se ne sono aggiunti altri duecento, man mano che la folla ha cominciato a filtrare oltre i servizi d'ordine, inflessibili fino alla ferocia. Del resto, quando gli estranei si sono imbucati al Majestic, il «presidente eletto» (questo il suo titolo formale, fino all'insediamento) aveva già abbandonato l'albergo della festa con la mamma per andarsi a chiudere con il suo vice Al Gore e le rispettive e attivisisme mogli Hillary e Tipper, in una parte riservata della Casa Bianca dell'Arkansas, il palazzo del governatore che evoca il ricordo scombinato di una villa palladiana ricostruta per un film. Quando si è chiuso là dentro Bill già sapeva di aver vinto. Lo aveva saputo con quasi un'ora di anticipo sui comuni mortali, ma con Bush e Quayle. E ha voluto brindare con i suoi killer del «Rapid Response» e con la sua comandante, Betsey Wright, un nome da ricordare in futuro alla Casa Bianca di Washington', dove l'attende certamente una solida carriera. Gli uomini e le donne di questa squadra d'assalto sono coloro che hanno preparato la «rapid response» a ogni attacco repubblicano: appena Bush, o Quayle sfoderavano una lama con cui colpire Bill, loro si riunivano e trovavano sempre la risposta più rapida, tagliente, un calcio sui denti da lasciare il segno. E' stata certamente dalla loro accanita e collaudata capacità di rappresaglia che è venuto il contrattacco della «smoking gun»: le carte di Weinberger che certifi¬ cavano una menzogna di Bush, sparate proprio nel giorno in cui il presidente in carica riuscì ad agganciare, 41-40, Clinton nei sondaggi. E con questi suoi uomini preziosi, la sua task-force, Clinton, più roco che mai, ancora incapace di distendere i nervi, ha passato gran parte del suo tempo. Intanto, a poche decine di metri, nel grande albergo Excelsior («Venite aU'Excelsior di Little Rock, ogni giorno un evento mondiale») si consumava il rito mostruoso e prevedibile dei media, e cioè la bolgia infernale di noi giornalisti, marchiati con il cartello giallo «Press», utilissimo per essere allontanati a grugniti e spintoni da ogni luogo interessante, chiusi nella riserva innaturale di un salone grande come un autoparco, abbrutiti per ore e ore su tre lunghissime file di tavoli serviti da televisori, prese di corrente, bollitori di caffè, distributori di acqua ghiacciata. Itinerari marcati da lunghi cordoni bianchi segnalavano i confini fisici della stampa, che non poteva entrare nell'antrogarage attiguo, se non per pochi metri, dove, fra strutture di ferro, palchi per macchine da presa e cavi elettrici, si svolgeva una festa fracassona con un'orchestra rock che amplificava fino a farci diventare sordi e isterici tutti quanti. All'aperto, nella strada sferzata dal gelo che sta scendendo nel centro degli Stati Uniti, la gente non faceva che accalcarsi e camminare a spintoni, in direzioni molteplici e ^decifrabili. Quello che ha fatto e detto il nuovo presidente lo abbiamo visto in televisione come ogni altro americano, europeo, o giapponese: mai come in un'occasione del genere e in un luogo tanto fuori dal mondo quanto Little Rock, ti accorgi che tutto è televisione, ovunque si vedono televisori e telecamere, si entra e si esce dall'immagine, si varca senza accorgersene il confine fra immagine reale e quella elettronica. E ti accorgi anche che se non sei un «media» televisivo, qui non conti un accidente e anzi sei d'impiccio. Ho goduto con tutti il gelo della notte di festa a Little Rock, davanti a quella Casa Bianca pavesata di bandiere, con i riflettori che la illuminavano come se avessero voluto disintegrarla. E così ho lasciato Little Rock nel cuor della notte, per andare a vedere che cosa succedeva nella vera patria, la «boyhood» di Clinton, a Hot Springs, una delle rare stazioni termali degli stati Uniti, per via di certe benefiche acque che sprizzano, sgorgano, «spring», dalle rocche dell'Arkansas. E l'appunamento fondamentale a «Chntonland» è all'hotel Majestic, dove ha preparato tutto Virgine, la mammina di Clinton, bella florida e paffuta, con una strana tintura vagamente punk (i capelli sulla fronte sono schiariti), ciglioni finti lunghi qualche centimetro e le sopracciglia dise- gnate con la matita su una fronte glabra. Quando finalmente si è presentata al Majestic, dopo essere stata con il figlio a Little Rock, le hanno fatto subito la domanda più idiota che le si poteva fare: come cambierà la sua vita, adesso che è la madre del presidente degli Stati Uniti d'America? Risposta: «Beh, ragazzi, sapete che io ho sempre avuto una vita un po' movimentata, così sono pronta anche a questo nuovo cambiamento. Però, credetemi, più che altro sono contenta per Bill. Ma non perché sia diventato il presidente, anche se è una bellissima cosa, ma perché è finito lo stress di quest'ultimo anno della sua vita che è stato una cosa da pazzi, assolutamente da pazzi». Attualmente la mamma di Bill sta vivendo il suo quarto matrimonio (il primo con il padre di Bill, che morì in un incidente; poi quello con il signor Clinton da cui Bill prese il nome e un terzo durato poco) accanto al signor Dick Kelly, con il quale alcuni giorni fa è stata vista alle corse dei cavalli, sua grande passione, mentre giocava con grande accanimento tutti i dollari della sua borsa. Qui, a Hot Springs, «la vera patria di Bill», poco prima delle otto di sera, d'una di notte in Italia) quando è arrivata la notizia che New York ce l'aveva fatta, e che quindi il vantaggio democratico su Bush era ormai invincibile, alto e acuto si è levato il grido dell'hog, cioè del maiale selvatico dell'Arkansas, gloria e simbolo dello Stato, bistecca prediletta, grugnito passato in dialetto, capolavoro americano. Capelli bianchi, viso limpido il signor Grady Jean non crede che gli si possa fare sul serio una domanda del genere: se ha conosciuto bene il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America: «Ma scherza? Se conosco Bill? Qui è di casa, anche se negli ultimi anni si è visto meno. Guardi, sua madre è uscita adesso con mia moglie e dovrebbero tornare fra poco. Un ragazzo senza l'uguale, vero Eugene?». Eugene è uno dei fattorini del piccolissimo Hilton di Hot Springs, la vera e sola patria natale del nuovo presidente: Hope, il paesino natio dove non ha mai vissuto, è stato utile in campagna elettorale perché significa speranza. Little Rock, capitale in miniatura di uno Stato remoto, è stata riciclata e promossa al rango di città natale. Ma Hot Springs, cinquanta miglia più ad Est, attraverso i boschi dell'Arkansas, è la cittadina dove Bill ha vissuto, è andato a scuola, ha fatto la gavetta politica, ha avuto i primi amori e ha vissuto la sua storia familiare. Grady Jean fu uno dei più decorati piloti della seconda guerra mondiale. Mi fa vedere una sua foto del 1945: pilota di marina sul suo cacciasilurante «Tdf» della Grumman, un apparecchio poi rilevato dalla General Motors. Grady Jean è un eroe: fu lui a dare il colpo di grazia, con un siluro da una tonnellata, alla più grinde portaerei giapponese: la «Yamato», affondandola. Adesso vende a quindici dollari e trenta centesimi magliette che hanno stampato sulla schiena la nuca e sul davanti la faccia di Bill Clinton, il presidente dei prossimi quattro anni, che non era ancora nato quando Grady Jean affondava i giapponesi nel Pacifico. Si avvicinano il pompista della benzina, i ragazzi neri del garage, il giornalaio e il venditore di birra. E' un coro: «Bill? Ma ragazzi, Bill è uno di noi, è come se fossimo diventati tutti quanti presidenti degli Stati Uniti d'America, è...è... è pazzesco, capisce?». I giornalisti di Little Rock e di Hot Springs sono concordi: «Bill è un politico a parte, non ha mai avuto la puzza sotto al naso, è sempre stato lui a venire da te se volevi un'intervista e ha sempre fatto in modo di dare il massimo per farti capire il suo punto di vista. Accidenti, io non so se un presidente può seguitare a fare così, ma se Bill ci riesce, ragazzi, abbiamo fatto la rivoluzione senza neanche saperlo...». Paolo frizzanti Il primo brindisi del vincitore con il «team» elettorale nel Palazzo di Little Rock Nella foto grande il presidente eletto Bill Clinton saluta gli elettori a Little Rock, dopo aver appreso la notizia della vittoria Qui accanto Bill Clinton esulta con il suo vice A! Gore [FOTO EPA] Chi lo conosce dice «E' un politico diverso dagli altri non ha mai avuto la puzza sotto il naso» Una sostenitrice di Clinton mostra una. copia dell'Arkansan Democrat Gazette con la notìzia della vittoria [FOTOAP]