ROTH In America parliamo al desert

ROTH In America parliamo al desert Intervista: l'impotenza dello scrittore nella sua società ROTH In America parliamo al desert PHILIP Roth è uno degli intellettuali americani più anomali. Nato il 19 marzo 1933 a Newark, 1 nel New Jersey, figlio di piccoli borghesi ebrei osservanti, è considerato da alcuni uno dei maggiori scrittori viventi degli Stati Uniti, da altri una sorta di «guastatore». Per altri ancora è semplicemente l'autore di Lamento di Portnoy, il libro che lo ha reso celebre. In questo romanzo, il protagonista racconta allo psicanalista le proprie repressioni e trasgressioni sessuali. Il suo primo libro pubblicato, il romanzo breve Addio, Columbus, è una storia d'amore che ha ricevuto il «National Book Award», ma ha fatto scandalo: una parte della comunità ebraica ha accusato Roth di essere un «giudeo antisemita». Nel momento culminante delle elezioni americane, ecco il suo parere sugli Stati Uniti, sull'Europa, sul ruolo dello scrittore in America e nel mondo. Li EI è stato a più riprese I intervistato sul suo essere americano: il ragazzino, l'adulto che ha I trascorso diversi anni in Europa. Che cosa significa per lei essere americano oggi? «Prendiamo i due momenti, l'adolescenza e il mio ritorno dall'estero qualche anno fa. Lontano dall'America ho avuto la coscienza molto viva di essere americano. Nel 1945 avevo, dodici anni, e l'America era la potenza vincitrice. LAmerica era una fortezza, un paradiso. Aggiungiamo poi il fatto di essere ebreo. Sapevamo, noi bambini ebrei, che era accaduto qualcosa di terribile. Senza jsapere esattamente che cosa. Non per questo ero un patriota incondizionato. Quando avevo quindici anni, ero, prima di ogni altra cosa, critico. «In seguito non ho avuto modo di "sentirmi" americano: vivevo qui. Ma, nel 1977, mi sono sistemato in parte (7 mesi su 12) in Inghilterra. E' aurato undici anni. Dopo l'eccitazione e la curiosità dei primi due o tre anni, mi sono sentito molto isolato. Mi mancava qualcosa: una certa vivacità, della qu^p, almeno ai miei occhi, l'Ingh^erra è del tutto priva. Ho avuto voglia di tornare qui, e l'ho fatto quattro anni fa. Al mio ritorno ero euforico, non perché ritrovavo l'America, ma perché avevo la sensazione di essere uscito di prigione. Ho riscoperto New York. Mi sono rimesso a insegnare. Oggi mi sono abituato a "essere di ritorno". Posso di nuovo vedere quel che è detestabile qui. Negli ultimi mesi, ho avuto il mio da fare...». Gli ultimi mesi, in politica, sono stati assorbiti dalla campagna presidenziale. Lei ha scritto un libro contro Nixon («Tricard Dixon e i suoi compagni»); nell'autobiografia, «I fatti», rievoca la sua infatuazione giovanile per Adlai Stevenson. Alle scorse elezioni ha votato Dukakis. E oggi? «Come la maggior parte delle persone del mio ambiente, ho sempre votato democratico, com'è ovvio. Ma con tutta onestà quel che accade oggi è deprimente. La rielezione di Bush sarebbe davvero terribile. Peggio della sua elezione, Peggio della^rielezione di Reagan.Terché in tutti i campi la corruzione è al culmine. Quelle persone sono semplicemente inaccettabili. Prendiamo i dibattiti televisivi. Quello dei candidati alla vicepresidenza era particolarmente intollerabile. Quayle ha esibito l'isteria che coglie i vili quando si sentono minacciati, dunque "pronti a tutto". Era orribile. Dopo il dibattito, un certo numero di persone, fra cui io, si sono precipitate al telefono per chiamare degli amici. Se si fosse potuta trascrivere la ragnatela di quelle conversazioni, si sarebbe avuta una visione di questa sorta di "gulag" degli intellettuali americani che si chiamavano gli uni con gli altri per confortarsi». E' una conferma in più del legame fra il caos politico e la decadenza della lingua, che lei ha già sottolineato? «Sono io? 0 non, piuttosto, Orwell? E' evidente. Guardi dove siamo. Il linguaggio di Clinton non m'ispira granché, soprattutto i suoi progetti... Sono convinto che per la prima volta al mondo un uomo politico ha detto in un discorso pubblico: "Mamma, ti voglio bene". Tutto ciò è piuttosto volgare. Tuttavia, il linguaggio di Clinton pretende di essere diretto, chiaro, efficace. Gli altri non parlano neppure l'inglese, ma questa specie di "gergo di Disney" che ci ha invaso». Come sentirsi davvero americano quando non si è sentimentale né puritano e quando, come lei, si ha un gusto smodato per l'ironia? «Maci sonoajnericani;ironici! Ce n'erano.!, sei aU'epoca*dell*uItimo censimento. Forse se ne devono aggiungere uno o due. Quando lei dice "sentimentale", penso che non voglia dire: "che ha del sentimento"; lei parla del sentimentalismo. Gli americani sono pronti a essere manipolati in politica dal sentimentale. Il che non significa che abbiano del sentimento. A dire il vero, nelle loro relazioni private e professionali, non ne hanno affato. La realtà delle lotte familiari lo dimostra ampiamente. «Quanto al puritanesimo, non è che ipocrisia. Basta accendere la tv, andare al cinema, al bar, in una città universitaria per convincersene. Il puritanesimo è una rappresentazione culturale di cui i politici come Bush o Quayle tentano di servirsi. Si rivolgono alle nonne; parlano di qualcosa che è morto da 60 anni. Madonna sì che è perfettamente reale. I film che mettono in scena le perversioni sessuali sono perfettamente reali. A me non interessano, ma la maggior parte delle persone ci sono abituate. «Io non credo dunque che la vita degli americani possa essere descritta come puritana. Che uomini politici si vestano di quella maschera e che una parte del pubblico sembri rispondere loro non ha, secondo me, alcuna influenza sulla realtà del Paese. Il pericolo è di averne una visione da stranieri, dall'esterno, unicamente attraverso la stampa, e di cercare, come fanno gli europei, una spiegazione globale. Non funziona così l'America. Io posso parlarvi delle vie, delle strade, del posto dove vivo nel Connecticut. Tutto ciò è sconosciuto. Ci sono qui tante popolazioni e geografie diverse, tante esperienze e nevrosi diverse... E' impossibile introdurre un ordine. Perché questa società, contrariamente ai cliché diffusi dalla sinistra europea, non è di ordine morale e nemmeno poliziesco. Ogni generalizzazione è sbagliata». Qual è il suo rapporto con l'Europa? A lei non piace essere annoverato nella «scuola ebrea di New York», con Saul Bellow, Bernard Malamud e Norman Mailer. Sarebbe più pertinente studiare le convergenze tra la sua opera e quella dei romanzieri europei, in particolare Milan Kundera e Philippe» Sollers, con i quali, al di là delle differenze culturali e biografiche, lei sembra «far lega». «Credo di essere più vicino all'Europa di qualsiasi altro romanziere americano di oggi. Certamente con quei due europei mi sento "a casa", in sintonia; per quanto possibile (così come mi sentivo d'accordo con un altro europeo, Danilo Kis). Li conosco tutti e due e nonostante la barriera linguistica che ci impedisce di andare più a fondo nella conversazione, sento che ci comprendiamo. Con questi romanzieri europei ho legami più stretti che con i miei contemporanei americani. Si possono trovare molte somiglianze nei nostri libri. Quello che abbiamo sicuramente in comune, tutti e tre, è un'idea del romanzo». Siete tutti e tre abbastanza pessimisti. Una volta lei ha detto: «Siamo gli ultimi romanzieri». E spesso ripete che negli Stati Uniti sono rimasti soltanto 15 mila lettori, e che «presto ne rimarranno 7500, e poi 2 mila, e poi una manciata, nelle catacombe... Fino al giorno in cui ci saranno più scrittori che lettori». E" ineluttabile? «Assolutamente. Ho detto 15 mila lettori già qualche tempo fa. Dobbiamo averne perso ancora qualcuno, da allora. I figli dei miei amici, che provengono da un ambiente intellettualmente privilegiato e si avvicinano ai 30 anni, sono ormai degli americani molto isolati. Non dico che siano in qualche modo perseguitati. Possono anche occupare posizioni importanti nelle imprese o nel governo, ma sono in una specie di ghetto intellettuale: la partita si gioca senza di loro, senza la gente colta. Non si può far niente per impedirlo, ne sono convinto. Quindi mi pare evidente che noi siamo gli ultimi romanzieri. Almeno in questo Paese», E' la fine di una civiltà? Un periodo di decadenza come accadde un tempo alla fine dell'Impero romano? «E' la fine di uno stile di vita civilizzato, che si fonda sulla parola. La fortuna della parola, le delizie della parola... tutto questo sarà sempre più raro. Nel nostro Paese solo una piccola élite partecipa ormai a questi piaceri intellettuali. Una sorta di aristocrazia. Bisogna essere nati in una famiglia che ha conservato questa specie di cultura per potervi accedere. Quando si proviene, come me, da una famiglia "ordinaria", è molto più difficile, oggi, fare il cammino che ho fatto, segnato da biblioteche e da libri. Un giovane che voglia seguire questa via deve essere straordinariamente motivato e concentrato, per superare tutti gli ostacoli che si frappongono fra lui e la cultura, per vincere questa immensa forza di inerzia». Ma allora, come si fa a essere scrittori in una società del genere? «Mi sento sempre legato alla società in cui sono nato. Dunque sto cominciando a diventare una persona anziana, di un'altra epoca. Oggi scrivo come volevo scrivere nel 1955, a 22 anni... Scrivo in quella realtà... dunque in quella illusione». E lei dice di preferire questa illusione a quella degh scrittori in Europa, che godono di più «rispetto». «E' vero, perché questo rispetto non ha alcun senso. Del resto credo che non esista più, nemmeno in Europa. Questa interpretazione della realtà è in qualche modo rassicurante. Rispettare gli scrittori, nella società attuale, significherebbe solo manifestare della pietà, perché sappiamo che l'impatto dei libri è inesistente, la capacità di inventare il romanzesco della realtà è totalmente estraneo alla mentalità americana. Questo non significa che ci disprezzino. C'è solo un'immensa indifferenza; tranne quando, improvvisamente, uno dei nostri scritti fa sensazione. Ma non interessa quello che è stato scritto, interessa il sensazionale». I suoi romanzi sono comunque letti, in America e altrove. E largamente commentati dalla stampa. «La stampa? Siamo realisti. Su 30 articoli, 25 non hanno niente a che vedere con una qualsiasi critica. Gli altri cinque sono "opportuni" - che dicano o no, bene del libro. Credo che tutti gli scrittori possano fare la stessa analisi, e che la critica abbia ovunque quasi la stessa funzione: la storia della critica giornalistica non è per nulla brillante, dovunque sia. Il vero problema, per uno scrittore, è: c'è un "suono di ritorno"? Ha davvero un'eco quello che pubblichiamo? Io faccio leggere il mio manoscritto a qualcuno - mai più di dieci persone - prima di darlo all'editore. E' la loro opinione che mi interessa. Sono loro che mi danno il piacere di essere letto. Per me "pubblicare" è questo. «Poi dò il libro all'editore e cerco di dimenticarlo, di non dare troppa importanza a ciò che succederà. Non ci riesco sempre. Il libro se ne va verso quel migliaio di persone che leggono ancora. Ma mi domando con chi parlano, costoro, delle pagine che hanno letto. Qui non c'è nessuno con cui parlare. E' molto difficile trovare qualcuno con cui avere, in un'ora, una conversazione precisa su un libro. Non so se sia così in tutto il mondo. Ma posso assicurare che è vero in America, persino a New York. Per questo amavo insegnare. Per tre ore si poteva parlare di un libro. Tutti avevano letto il libro. Certo la lettura è sempre stata un'attività solitaria. Ma non era sinonimo di isolamento. Oggi, invece, chi legge è isolato». Josyane Savigneau Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» li Usa ho menò 15 mila lettori. ranno ancora. autore ottiene soltanto pietà Siamo alla fine di una civiltà. La delizia della parola sta morendo LA STAMPA la sua società H ica o li Usa ho menò 15 mila lettori. ranno ancora. autore ottiene soltanto pietà ame senno e a un nia? ci! Ce Itimo evono uando penso ha del senti sono n pol che o del nelle essioo. La lo di, non ndere ar, in r conmo è turale Quavolgoualco. Mamente scena o per inte parte ate. che la essere he uoquella rte del e loro na inese. Il isione MERda stranieri, dall'esterno, unicamente attraverso la stampa, e di cercare, come fanno gli europei, una spiegazione globale. Non funziona così l'America. Io posso parlarvi delle vie, delle strade, del posto dove vivo nel Connecticut. Tutto ciò è sconosciuto. Ci sono qui tante popolazioni e geografie diverse, tante esperienze e nevrosi diverse... E' impossibile introdurre un ordine. Perché questa società, contrariamente ai cliché diffusi dalla sinistra europea, non è di ordine morale e nemmeno poliziesco. Ogni generalizzazione è sbagliata». Qual è il suo rapporto con l'Europa? A lei non piace essere annoverato nella «scuola ebcon Saul Malamud Sarebbe pdiare le csua operamanzieri colare Millippe» Solledi là dellerali e biobra «far le«Credo di esl'Europa di manziere amtamente con sento "a casquanto posssentivo d'aceuropeo, Dantutti e due eriera linguistdi andare piversazione, prendiamo. zieri europeiti che con i americani. molte somigbri. 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