Segni accetta ma chiede garanzie di Fabio Martini

Segni accetta ma chiede garanzie Cresce la polemica sui progetti «pasticciati», aspra lite tra Muzi Falconi e D'Alema Segni accetta ma chiede garanzie Oggi l'annuncio: entra nella commissione per le riforme ROMA. Nel chiuso della sua mansarda nel centro di Roma, Mario Segni il suo «sì», lo ha annunciato di primo mattino al vecchio amico Gerardo Bianco, presidente dei deputati democristiani, e qualche minuto dopo lo ha ripetuto, per telefono, ad Achille Occhetto. Per tutto il giorno Segni è restato rinchiuso nel suo quartier generale, ha eluso la caccia dei cronisti, evitando di spiegare pubblicamente i motivi che lo hanno indotto ad accettare la proposta della de di entrare a far parte della commissione bicamerale per le riforme. E il cronista che, bussando al suo ufficio e alludendo alla trascorsa presidenza del Comitato per i servizi, ha chiesto: «C'è il presidente Segni?», si è sentito rispondere da Teresita Foggia, una delle segretarie: «Il presidente è morto...», alludendo forse a papà Segni. Ma se Segni figlio nel giorno del suo «sì» ha difeso il suo silenzio e la sua privacy, nelle chiacchierate con i suoi amici è stato un po' più espansivo. Segni ha spiegato che sarebbero maturati negli ultimi giorni «molti fatti nuovi». Anzitutto il clima diverso all'interno del suo partito, almeno da quello «che dicono Martinazzoli e Bianco». Segni avverte anche una clima più disteso nei rapporti col pds, al punto che oggi si incontrerà con Occhetto. Segni, dunque, entra, perché «si è ridotto il rischio del "papocchio"» e perché avrà «piena libertà» nella commissione. Dopo una giornata di riunioni, alle otto di sera, Segni ha lasciato il suo bunker, ha fatto capolino a Montecitorio e ai cronisti che speravano in una spiegazione il leader referendario ha risposto così: «Non è una questione di riserve da sciogliere. Per ora ci sto riflettendo, domani in una conferenza stampa vi dirò se accetto e in che modo...». Ancora un po' di suspence, dunque, secondo la previsione fatta in mattinata da Franco Marini: «Segni si farà pregare un po', ma poi accetterà. Perché non dovrebbe farlo?». L'ingresso di Segni nella commissione per le riforme coincide proprio con la fase più calda dei lavori della Bicamerale e quindi con il riaccendersi di una litigiosità altissima. Commenta un po' sarcastico il presidente De Mita: «Vedo che qui ognuno parla per sé e non per il gruppo che lo ha designato... Sapete com'è... Ci sono 60 membri e 61 opinioni...». Il guaio per De Mita è che sale la polemica ma per la Bicamerale i tempi stringono. Entro il 20 gennaio la Corte Costituzionale deciderà l'ammissibilità del referendum elettorale e se ci sarà il via libera gli italiani voteranno tra il 15 aprile e il 15 giugno. E qui si profila la prima novità che probabilmente Segni annuncerà starnami nella conferenza stampa: i referendari chiederanno che la consultazione sia fissata per la prima domenica dopo il 15 aprile. Nel frattempo però, perché la Bicamerale abbia "corso legale", occorre che sia approvata senza intoppi la legge costituzionale che assegna i poteri alla commissione. Ma occorre che sia approvata col quorum dei due terzi. Ieri in Transatlantico il segretario liberale Altissimo, era minacciosissimo: «Per evitare accordi pasticciati, ricorreremo alle soluzioni più forti... De, psi e pds? Si fottano!». Tutti contro tutti: La Voce Repubblicana se la prende col pidiessino Salvi («la sua proposta è la negazione più assoluta dell'ispirazione referendaria») e il giurista della Quercia risponde: «La Voce è informata malissimo». Macaluso se la prende con Segni: «Sta lavorando per impedire al Parlamento di lavorare». Il pidiessino D'Alema se la prende con Toni Muzi Falconi, di "Alleanza democratica", che aveva contestato al pds di non aver versato per intero le quote del Patto Segni: «Muzi è un venditore di sigarette, s'intende non di leggi elettorali, ma di altre cose». E Muzi risponde: «Non sono un venditore di sigarette. La verità è che i pattisti del pds non hanno saldato il loro debito con il comitato 9 giugno: è arrivato meno del 50% del dovuto». Fabio Martini Mario Segni, leader del movimento referendario

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