Tra i poveri bianchi di Clintonville

Tra i poveri bianchi di Clintonville A Little Rock c'è anche chi maledice il vincitore: la droga e la violenza sono colpa sua Tra i poveri bianchi di Clintonville Case cadenti, cimiteri d'auto, rabbia e bandierine LA CACCIA ALL'ULTIMO VOTO LITTLE ROCK DAL NOSTRO INVIATO A tarda notte la vittoria di Bill Clinton sembra marciare a passi decisi verso la conferma, anche se prospetta ima lunga attesa prima che arrivino e si possano calcolare i dati degli Stati chiave. La città di Little Rock flagellata dalla pioggia è il teatro di una attesa spasmodica, Bill Clinton appare teso e felice: l'aumento netto e sentibile dei votanti, il più alto degli ultimi trent'anni, dovrebbe confermare il fatto che molti abituali non-votanti questa volta sono corsi alle urne con il preciso scopo di bocciare Bush e la sua Amministrazione. Alle 19, ora di New York e di Washington, gli analisti che appaiono in televisione prevedono che un'eventuale bocciatura di Bush potrebbe spingere il presidente uscente a compiere un'azione clamorosa. Quale? Probabilmente quella di rompere una consolidata tradizione e accompagnare il nuovo presidente (che deve attendere undici settimane per essere ufficialmente insediato) nei suoi primi atti, accompagnandolo in una sorta di giro promozionale con cui introdurlo e presentarlo nei più delicati circuiti internazionali. Un ombrello a spicchi rossi e blu ha accolto Clinton quando è sceso dall'aereo che lo ha portato nella sua piccola patria dell'Arkansas. Cappotto pesante grigio, sciarpa intorno al collo per difendersi dal freddo e dall'afonia che lo ha colpito, Bill è tornato nella sua piccola patria. E questa piccola patria, l'Arkansas depresso, si aspetta di essere finalmente promossa a grande patria per aver dato i natali a un uomo che, se conquistasse la .Casa Bianca^probabilmente riuscirà a mantenerla per più di un mandato, inaugurando e segnando una nuova era. Un elemento che potrebbe ulteriormente confermare la vittoria di Clinton è rappresentato dal fatto che all'uscita dei seggi molti elettori che avevano sempre pensato di votare per Ross Perot, hanno detto di aver vota to poi in modo diverso, e di voler però esprimere un particolare ringraziamento al piccolo e dinamico outsider. Bill ha votato poco prima di mezzogiorno in una cabina co perta da una tenda di tessuto sintetico, ha abbracciato le donne per strada, ha stretto molte mani, è apparso stanco ma contento, fiducioso e molto operativo: i suoi portavoce insistono nel dire che il governatore dell'Arkansas ormai non si preoccupa più della vittoria che sembra a portata di mano, ma della sua qualità: esiste ancora la remota ma non scongiurata eventualità che si possa ripetere oggi la situazione anomala che si verificò soltanto nel 1824, e cioè che si produca una situazione di stallo fra i «grandi elettori» tale da rinviare l'elezione vera e propria del presidente al voto del Congresso. La città di Clinton, come tutti gli Stati Uniti, sta trattenendo il respiro, mentre un'ondata di gelo e l'annuncio di un tornado si abbattono sull'Arkansas. Ancora per 24 ore sarà comunque questa piccola città, la città di Clinton, il centro del mondo, la città in cui da alcuni mesi è in moto la fabbrica della leggenda dell'uomo che si è fat to da solo, dell'uomo che ha lottato contro l'infelicità e l'ingiustizia, che ha saputo da solo riemergere da una situazione so ciale e famigliare disastrosa incarnando uno dei principi fondamentali dell'American Dream, e cioè quello del pioniere che testardamente e con intelligenza insegue e conquista il risultato e lo fa non per soddisfare un personale desiderio di gloria e di ambizione, ma per servire la sua patria, aiutare la sua gente a riattraversare la prateria e raggiungere ancora una volta la nuova frontiera come accadde con Kennedy. E' dunque il grande «Bill Clinton's Day»: Little Rock è pavesata, eccitata, stracolma, transennata, infiocchettata, sa di hot-dogs e bancarelle, sa di caffè e di fogna, ma è anche tirata a lucido, gli edifici color calce. Alle dieci del mattino, quando è sceso fra la sua gente, Bill Clinton era già chiamato da tutti «Mister President». Alle 19 lo ha raggiunto anche Al Gore l'aspirante vice presidente e le due coppie presidenziali e vicepresidenziali si sono chiuse nella casa di Clinton. Una folla enorme si è raccolta davanti alle transenne di quell'edificio, proteggendosi come può dal freddo e dalla'pioggia. Clinton ha voluto farsi vedere da tutti abbracciato alla figlia Chelsea. «Ho combattuto per un anno e mezzo per arrivare al risultato, ha detto un Clinton disteso davanti ai microfoni, e adesso la lotta è finita. Non posso fare altro che aspettare insieme a voi». «Eravamo 350 a lavorare fino a ieri, ma adesso sono arrivati tutti quelli del Secret Service e non riusciamo più a capirci niente. E' un gran casino, siamo sopraffatti», mi ha detto il responsabile della sala stampa Kurt Hirsch, un ragazzo in gamba, uno che si è ammazzato per lavorare sia per Bill che per Hillary (l'ha aiutata a preparare i discorsi politici più impegnativi). Effettivamente a metà pomeriggio non si capiva nulla, ma non c'era nulla da capire: le televisioni, tutte, sia le locali che le grandi catene, avevano sospeso ogni tipo di dibattito politico, salvo la trasmissione degli spot a pagamento, soltanto per autodisciplina: «Altrimenti qui diventa una corsa di cavalli, invece di un'elezione presidenziale», spiega Hirsch. Ho cercato di sondare umori e malumori fra la gente di questa città, non limitandomi soltanto a sentire i molti clintoniani decisi e pieni di fede, cercando anche i molti che esprimono malumore. Il vecchio Phil la cui bottega contiene una piccola mitragliatrice da museo, fucili dell'epoca di Davy Crockett, un'esposizione di pistole automatiche di prima qualità, scatole di polvere nera, metri di miccia, pallini, coltelli, fucili, armi automatiche. E sul muro della bottega capanna, foto dell'orso ucciso, caricato sulla jeep. Certo, questa non è gente che marci sulla sintonia ecologica: questi somigliano semmai alla brigata del film «Dear's hunter», in italiano «Il Cacciatore». E Phil rappresenta senz'altro alla perfezione l'America senza memoria storica, eterna, uguale a se stessa, con l'arma in tasca, gli amici al fianco e il sospetto nelle narici, il sospetto di chi va a caccia e di chi è cacciato. E' il titolare del primo Gun Shop, subito fuori il minuscolo centro della minuscola capitale imbandierata. La sua è una bottega ai margini della strada, una capanna piena di rifles, di Winchester, dì pistole e revolver per tutte le tasche, sia per dimensioni che prezzo. Chiac¬ chieriamo, dice con un certo disprezzo che lui ha votato Bush, e così hanno fatto i suoi. Quando lo saluto per risalire in macchina mi scruta e poi con voce bassa mi avverte: «Be careful, fell'aa», stai all'erta, amico. E mi allunga il biglietto da visita. Attento a che cosa, signor Young? «Stai attento alla tua pelle, fell'aa, perché qui ti fanno secco i ragazzi delle bande nascoste lungo i margini del bosco, soltanto per divertirsi. Ecco perché non voto per quel tizio che a voi invece piace tanto: quel giovanotto ha studiato, è istruito, si crede di essere chissà chi, ma sa soltanto aumentare le tasse. Ed è uno che tentenna e rinvia sempre. Shit, merda, pur di votargli contro, sono uscito all'alba stamattina». Sulla strada fra le due carreggiate dell'autostrada c'è una larga striscia di prato: niente guard rail, niente di niente. Soltanto erba. E sull'erba, uno strano spettacolo: dei lavoratori in tuta grigia, con,giubbotto arancione raccolgono le erbacce e fanno manutenzione. Accanto a loro, a cavallo, un uomo li tiene sotto mira con il fucile. Sono reclusi ai lavori forzati. Quasi tutti neri, ma anche gli uomini a cavallo, con cappello a larga falda, grassi e tutto sommato poco feroci, sono neri. La radio in macchina avverte che «President Cl'n'n» è già andato a votare, è arrivato all'aeroporto, lo stanno festeggiando. La capitale dell'Arkansas è una città inimmaginabile: la comunicazione televisiva ha impiantato padelle per satelliti da quattro metri di diametro, giganteschi trucks con rimorchio inalberano palchi di riflettori buoni per uno stadio, nell'hotel Excelsior, anonimo e buono per sei matrimomni contemporanei, hanno allestito tutte le sale necessarie per la bisogna. Tavoli infiniti, televisori, il popolo dei reporter ai quali non frega un accidente di niente e che vivono ringhiando- si addosso, versando bidoni di caffè piovoso da erogatori che sembrano cisterne. E nella sala più grande, uno spazio che sembra non aver limite benché sia sotterraneo squadre di carpentieri chiodano un enorme drappeggio blu, fissano tavoli e podi, palchi e microfoni. Un cartello'awerte: «Il servizio segreto ha bisogno di perquisire la sala dalle 4,15 alle 4,45. Di conseguenza, tutti fuori entro le 4,14». Un gentiluomo ottuagenario con la tuba in testa e una lunga barba candida al mento, alto e allampanato come uno zio Sam, vende bandiere americane. Ovunque i chioschi smerciano Clinton-Cola, Gore-Sprie, Hillary-Up e quanto agli avversari, potete stapparvi un'agra Bush-Lemonede. Quayle è venduto come «puffo» e io non so resistere al fascino kitch del boccale con le due foto ovali di Bill e Al. Poi magliette, T-shirt blu, rosse, patriottiche, alternative, per tutti i gusti. I poliziotti sono spaventati per il traffico che ha provocato il terremoto a Little Rock, paesone di centocinquantamila anime, capitale di uno Stato che ha meno abitanti di Genova. La pioggia comincia dopo le due del pomeriggio. In prossimità di Hot Springs, un cartello di saluto: «Benvenuti nella terra che ha visto l'infanzia di Bill Clinton». L'Arkansas è verde e autunnale, il suo fiume limaccioso e i pantani sono pieni di pesci-gatto che costituiscono il piatto popolare e povero. All'incrocio un uomo giovane, grosso, la barba lunga e gli occhi spenti, tiene in vista un cartello: «Sono senza casa: disposto a qualsiasi lavoro in cambio di cibo o soldi». E' un'America che dovrebbe somigliare ai mille film visti in Europa, far parte di un grande magazzino-archetipo che è sempre stato alla nostra portata, ma la verità, la realtà non è mai quella che avevamo fantasticato. Una ferrovia polverosa, case sgangherate ma di legno e in definitiva bellissime, distese, pantani di automobili parcheggiate o forse abbandonate o forse in vendita. Tutto usato, tutto di seconda mano. Materiali da costruzione, pile di copertoni. Ma tutto è pulito, le regole del traffico sono rispettate come a Zurigo e il paesaggio è rotto dagli edifici lunghi centinaia di metri, grigi e monotoni, che sono i campi di sterminio dei polli e delle galline, gli immensi complessi da cui escono cosce e petti, tutto impacchettato, frizato, stivato. Nell'aria bagnata dalla pioggia mi sembra di cogliere il sentore triste e insopportabile delle penne di pollo bruciacchiate e umide. Così, questa è la patria di Bill Clinton, l'uomo che tutti chiamavano presidente sei ore prima che chiudessero le urne. Un paese per governare il quale Clinton ha dovuto imporre tasse su tasse, cosa che ha fatto e fa paura agli americani, non tanto e non soltanto per il danno immediato, ma per la loro avversione istintiva per l'intrusione del governo. Per dodici anni ha governato da una sorta di Casa Bianca in miniatura, candida come la calce, e che risponde ai canoni architettonici del dorico-stalinian-faraonico americano, che ha il suo esemplare più sconcertante nel Lincoln's Memorial di Washington. Ma quello che si vede fuori città, appena oltre il piccolo centro, è l'agglomerato delle «Trailer Home» e cioè le case su roulotte da trentamila dollari (cifra ancora accessibile) che hanno perso le ruote e sono state circondate da muretti e mattoni, simulando così la vera casa in muratura, anziché un'appendice di una scassatissima automobile, alla fine di una vita stentata, ripetitiva e frustrante, sia pure di fronte al grande spazio dell'A merica senza confini. L'automobile è il simbolo disfatto dell'Arkansas clintoniano. Cimiteri di macchine, par cheggi di macchine, rivendite di macchine di terza mano, car rozzerie di quart'ordine, e di tanto in tanto una casetta intima, decorata esternamente con gli Hubcaps, cioè le borchie del le ruote, accanto a un'altra ca succia che è il «Pawn Shop», ovvero un miserrimo banco dei pegni. Paolo frizzanti Il proprietario dell'armeria «Non ho votato per quel giovanotto pieno di prosopopea che sa soltanto aumentare le tasse e rinviare» Clinton vota con la figlia Chelsea In alto, due immagini della campagna elettorale Nella foto piccola, il palazzo del governo a Little Rock [FOTO ANSA-EPA-AFPJ —