Guerini: «Attenti ai falsi profeti»

Guerini: «Attenti ai falsi profeti» Il cantautore interviene nel dibattito sui nuovi «maitre à penser» della musica Guerini: «Attenti ai falsi profeti» Ognuno faccia i conti con la sua coscienza Invidia pazzesca nel mondo accademico BOLOGNA DAL NOSTRO INVIATO Cantautori o nouveaux philosophes? I palasport dei concerti di De Gregori prima, i teatri delle magiche serate di De André ora, si riempiono di persone che ascoltano le paroje delle canzoni in un silenzio religioso. «Povera Patria», la violenta invettiva di Battiate uscita l'anno scorso, è stata perfino censurata dalle tv. Ma non tutti i poeti più amati della musica italiana si sono buttati nell'agone della polemica sociale e politica, oggi pur così ricca di spunti: Conte conferma che non intende sfruttare il proprio ruolo di musicista per i problemi che gli stanno a cuore come privato cittadino, e De André ha a sua volta puntualizzato: «Non voglio cavalcare nessuna tigre, semmai mi diverto ad aprire la gabbia». Sepolto sotto una montagna di carte nel suo studio di via Paolo Fabbri 43, seduto al computer in cui sta nascendo il secondo romanzo dedicato agli Anni 50, il cinquantaduenne ragazzone Francesco Guccini che è alla vigilia di un breve tour ascolta pensieroso le notizie dalle serate altrui: come ci si aspetti dal Cantautore un Verbo, una parola di cui fidarsi o da usare come slogan. Poi sbotta: «Non è comodo, questo. E' impegnativo. Io, come De André, non ho mai affermato certezze. Siamo cantori del dubbio: intendendo che interrogarsi ha una grande importanza, perché se uno si fa domande è segno che è insoddisfatto, cerca». Fra i cantautori e il loro pubblico è tornata dopo anni una corrente di gran fiducia. «Ci si fida di molta gente, forse troppa. "Cuore" ultimamente ha colpito: non mi faccia fare nomi, perché non mi sembra corretto». (Il settimanale satirico ha cominciato ad occuparsi pesantemente di cantautori: i primi sono stati Battiato e Dalla per le loro lussuose dimore siciliane; e dopo il concerto gratuito a Roma, è toccato a Venditti che fa i concerti «per la ggente», ndr). Come le sembra il nostro tempo? «Pensavo che un po' di recessione ci avrebbe fatto bene. Anche se non è il dopoguerra, quando c'era un fervore, mi accontentarsi delle cose essenziali e andare avanti. E' il caso che questa crisi faccia pubzia, che cancelli una classe politica: in questo senso è sicuramente positiva, perché non se ne poteva più. Ma non sono solo loro i re- sponsabili. La responsabilità è di tutti coloro che hanno tirato a campare accettando questo sistema. Tutti un pochino abbiamo accettato; c'era un crogiolarsi, un pensare a un mucchio di cose che non servivano. Un vivere al di sopra dei propri mezzi, soprattutto moralmente. E' un discorso delicato, le colpe si vedono anche nelle piccole cose: come giocare a tombola con le palline d/óro». E lei come ha reagito? «Mi sono ritirato, ho visto meno gente, ho ripreso certi studi. Mi son sentito a posto nel non mutare solo perché le situazioni erano diverse. Son stato sempre qui, in via Paolo Fabbri 43». Ora pero i cantautori sono tornati ad essere le voci da ascoltare. «Si sono avute delle sorprese, anche perché c'era stato un grande abbandono negli Anni 80; molti giornalisti dicevano di noi: ah, questi chitarrosi, che lagna. Ma io un vero e proprio momento di crisi non l'ho mai vissuto». Ma una trasformazione almeno, fra voi cantautori, c'è stata negli anni dell'invasione anglo/americana: molti hanno cominciato a mettere più musica intorno ai testi. «Questo sì. Per me è stata un'evoluzione: un tempo avevo paura di suonare con un batterista dietro la schiena. Adesso, se il batterista mi manca, mi sbilancio». E ora torna la voglia della chitarra sola, della ballata. «Il fatto è che una canzone dietro l'altra e basta, per due ore, può annoiare. Invece bisogna tenere vivo il dialogo con il pubblico». Lei in questo è un maestro. «Me la cavo. La musica paga nelle vecchie canzoni, ti fa vedere la possibilità di rimetterle a posto con una mentalità diversa: nei "70, quando andavi in sala, non sempre avevi le idee chiare. Ora i nostri musicisti hanno pari dignità con gli stranieri», n pubblico vuole sentir parlare i cantautori. A De Gregori in concerto, dopo «Viva l'Italia», hanno urlato: «Discorso, discorso». «C'è un desiderio di pulizia. Ma non vorrei cadere nella retorica: pensi che avevo un paio di canzoni in mente sull'argomento Italia, e non le scriverò più. Perché sembra che voglia cavalcare anch'io la tigre. Esprimerò i miei turbamenti con sfumature. Lo scorso anno al Premio Tenco quelli della mia casa discografica mi hanno detto che Battiato aveva scritto una canzone molto bella sull'Ita¬ lia ("Povera Patria", ndr). Ho pensato: "Porco cane, sono arrivato tardi", e non l'ho più fatta. Doveva chiamarsi "Povera Italia". Me ne sono nate diverse, di questo tipo. Invece no, bisogna arrivarci in un altro modo, con le metafore. Perché, se no, si corre il rischio di rifare l'"Awelenata", e già tanti l'hanno rifatta». Qualcuno di voi si sente investito di responsabilità troppo grosse. «Io no. Primo, perché ho sempre raccontato me stesso e i miei dubbi. La canzone d'autore, quella valida, rispecchia un pochino l'andamento di una vita: c'è differenza fra un album e l'altro ma uno racconta sempre se stesso e non si pone il problema della responsabilità; non mi chiedo mai se una canzone piacerà, deve piacere a me. La seconda cosa è che conosciamo benissimo quali sono i limiti di questa professione. Non per mettere le mani avanti, non per dire: sono solo canzonette. E' stato riconosciuto che non sono solo canzonette, anche se non è poesia. Son cose diverse. L'unica responsabilità che bisogna avere - e non ce l'hanno tutti - è di fronte alla propria onestà: per usare frasi fatte, non ciurlare nel manico». Essere cresciuto in un'epoca in cui la musica era ancora fuori dal business, ha influito sul suo culto per l'onestà? «E' anche un modo diverso di vedere le cose. Io non amo la pubblicità e non la faccio. Il mio vecchio padre quando vedeva gli spot con gli attori che amava, diceva: ma come fanno quelli lì, non si vergognano? Non c'è mica niente di male, in fondo, solo non mi va». Lei non è mai stato a un'adunata tv tipo «Vota la voce»? «Ma no. Un giorno, per un malinteso, è venuta da me Raitre regionale. Pensavo fosse per un'intervista sul mio quartiere, invece volevano riprendermi in casa a pranzo con la famiglia. Ho detto di no, non hanno insistito». Altri sono più elastici di lei. «Il mio primo libro ha venduto molto, ma se fossi andato a due o tre trasmissioni giuste, avrei venduto di più. Non mi sento un eroe, fa parte del mio modo di essere». Cantautore voce della coscienza di oggi. Che ne pensa di questa definizione? «Da un lato è buon segno. Ma è anche pericoloso perché si tende, come già avvenuto, a prender su tutti. Appena ci fu un calo di tensione, appena il cantautore fu messo un po' da parte nel decennio scorso, pensai: meno male, adesso chi ha le gambe per camminare vada avanti». Il prossimo disco? «Dovrei uscire nell'ottobre '93». Lei ha anche vinto il premio Montale. «Mi ha fatto piacere perché è segno di un interesse diverso per la canzone. Non l'unico, però: mi hanno invitato ad una giornata dedicata alla poesia, a parlare della poesia per musica. Pensi, 4 anni fa una ragazza che voleva fare una tesi sulle mie canzoni, qui a Bologna, non ha trovato il relatore. La canzone è un genere particolare che merita di esser studiato; ragazzi francesi hanno fatto una tesi sulle mie canzoni, mi sono divertito moltissimo a leggerle perché ho scoperto cose che non sapevo: ad esempio che quando parlo del tempo uso la metafora del denaro, nel senso di qualcosa da spendere con saggezza». Perché la marcia di avvicinamento del mondo accademico a questi fenomeni è stata tanto lenta? «Secondo me c'è un'invidia pazzesca». Marinella Venegonl Francesco Guccini. Le date del tour: 6 Palasport di Torino, 13 Milano Palatrussardi, 19 Margherita di Genova, 14 dicembre Palasport di Firenze.

Luoghi citati: Bologna, Firenze, Genova, Italia, Milano, Roma, Torino