«Non voterò per il Presidente E' un politico senza ideali»

«Non voterò per il Presidente E' un politico senza ideali» «Non voterò per il Presidente E' un politico senza ideali» GEORGE WILL IDEOLOGO CONSERVATORE NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO George Will è un «columnist» di tipo classico: colto, brillante, bene informato. Il suo eroe è Thomas Jefferson, lo statista di antiche virtù e di buone letture, che conosceva il latino ed il greco. Come Jefferson, Will crede più nella società che nei governi. Questo è il nocciolo del conservatorismo che ispira i suoi articoli (per il «Washington Post» e per «Newsweek»), oltre che i suoi apprezzati saggi, che spaziano dalla storia costituzionale al baseball. E questa è la ragione dell'amicizia e della stima che egli ha avuto per Bonald Reagan, ma che non ha per George Bush. Will ha annunciato ieri che non voterà per il presidente. Scriverà sulla scheda il nome di un non-candidato Jack Kemp, un reaganiano di ferro, e ciò nell'intento di mandare un messaggio liberista ed antistatalista «alla probabile amministrazione Clinton». Lei è un amico personale di Reagan, oltre che un suo ammiratore. Non ha invece grande considerazione per Bush. Quale è la fondamentale differenza tra i due presidenti? «Ci sono uomini che vogliono diventare presidenti per fare qualcosa e uomini che vogliono diventare presidenti per essere qualcuno. Reagan voleva fare qualcosa. Bush voleva essere qualcuno». Bush ha quindi dissipato il patrimonio di popolarità che aveva ereditato da Reagan? «Bush non era un prolungamento di Reagan, come qualcuno pensava. Al contrario, egli ha inaridito il partito repubblicano prosciugando la linfa con la quale Reagan lo aveva reso vitale, e cioè le idee, le passioni, le convinzioni. Reagan credeva in poche cose, ma ci credeva veramente. E queste cose sapeva farle capire alla gente. Bush non ha alcuna zavorra di idee, perché non crede in nulla». Un anno fa lei scriveva che Bush sarebbe stato rieletto perché mai nella storia un presidente è stato ripudiato dopo una guerra vittoriosa. E' l'economia che ha capovolto i pronostici? O c'è qualche altra ragione? «L'economia non spiega tutto. E' solo una componente del quadro. Altrettanto importante è la fine della Guerra Fredda. Per sessanta anni - diciamo dall'inizio della Grande Depressione nel 1929 alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 - gli americani sono stati angosciati da guerre calde e fredde. Poi l'incubo è finito, ed oggi c'è come un grande senso di liberazione». E quali sono le conseguenze dì questa «liberazione»? «Che non dobbiamo più pensare al mondo. Possiamo finalmente pensare ai problemi di casa nostra: scuole, centri urbani, posti di lavoro, e chi più ne ha più ne metta. Questo cambiamento favorisce i democratici. A torto o a ragione, essi vengono considerati più bravi nel risolvere i problemi pratici e domestici, mentre i repubblicani vengono maggiormente stimati come custodi della sicurezza militare». E tuttavia molti pensano che Bush avrebbe potuto salvare la sua popolarità, ma ha commesso molti errori. «Sì, errori gravissimi. Per esempio, il suo viaggio in Giappone di un anno fa. Fu terribile. Bush si portò dietro il codazzo di manager superpagati e falliti della nostra industria automobilistica. Si prosternò dinanzi ai suoi ospiti, si mostrò debole e privo di dignità quando mendicò un allentamento della pressione competitiva sul mercato americano». Altri errori? «Durante la campagna elettorale si è sempre mosso con ritardo e senza troppa convinzione. Soltanto il 10 settembre scorso, a Detroit, si è deciso a presentare un programma coerente di politica economica. Solo allora ha detto con chiarezza che il capitalismo imprenditoriale può fiorire solo se il governo non mette troppi bastoni tra le ruote. Ma ormai era tardi». Crede che le cose sarebbero cambiate se avesse fatto quel discorso sei o sette mesi prima? «Avrebbe aiutato. Ma non oso dire che sarebbe stata una mossa decisiva. Molta gente è ormai giunta alla conclusione che il vero problema non è il programma elettorale di Bush, ma è Bush stesso. Come dire: è una brava persona, ma quel lavoro non fa per lui». Comunque, i temi tipici dei conservatori americani - la famiglia, la religione, la disciplina, la fiducia in sé stessi - stavolta non sembrano, funzionare. Perché? E' colpa di Bush o è cambiata l'America? «Ci sono tre spiegazioni. Primo: Bush non è credibile. Sembra recitare, a fini elettorali, convincimenti che non ha. Secondo: l'economia offusca tutti gli altri temi. Scuole, strade, ponti, posti di lavoro: tutto appare oggi più importante dei valori etici e culturali. Terzo: sì, l'America è cambiata. E' ancora tm Paese conservatore, un Paese religioso, ma è stanco delle polemiche sul- l'aborto e sulla preghiera nelle scuole. Diciamo che si è spostata su posizioni più libertarie». Parliamo di Clinton. Lei lo ha paragonato ad Enrico di Navarra, il re francese che si convertì al cattolicesimo perché «Parigi vai bene una messa». Un nobile parallelo per dire che Clinton è un opportunista: finge di essere un centrista moderato, mentre in verità è un liberal. E' così? «Clinton è intelligente e si circonda di collaboratori intelligenti. Durante la campagna elettorale ha mostrato una straordinaria tenacia: è stato bersagliato da scandali e da critiche, ma ha tenuto duro ed è andato per la sua strada. Ha gestito bene la sua immagine ed ha correttamente diagnosticato i problemi del suo partito». Veniamo al punto: quali sono questi problemi? «Possiamo dire che è un solo problema: il partito riesce a tenersi i suoi voti di sinistra, ma da tempo non conquista più i voti di centro. E senza il centro non si entra alla Casa Bianca. Clinton ha dimostrato di possedere, oltre alla indomabile tenacia, una buona dose di sagacia tattica. Resta però un dubbio: quest'uomo non è troppo innamorato del potere? E l'amore per il potere non lo spinge a promettere qualcosa a tutte le fazioni del suo partito?». Lei sostiene che non ci sono idee fresche nel programma democratico. Ha scritto anzi che cercare novità nella piattaforma di Clinton «è come cercare in una stanza buia un cappello nero che non c'è». «Proprio così. Il suo è un programma perfettamente scontato ed ortodosso, secondo i canoni della tradizione democratica: i l l ricchi devono pagare più tasse, gli imprenditori devono finanziare l'assicurazione sanitaria ed i corsi di riqualificazione della manodopera. La solita litanìa. Nulla di interessante e nulla di originale». Cosa sperava che ci fosse? «Qualche ripensamento in tema di politica fiscale. Ci sono democratici, come l'ex senatore Paul Tsongas, che hanno avuto il coraggio di proporre cose nuove per fronteggiare il disavanzo federale. Clinton è una persona troppo, troppo prudente». Non mi ha ancora detto dove lo colloca dal punto di vista, per così dire, ideologico: è un Uberai o è un moderato? «Direi che è un liberal a metà. Vuole che il governo spenda una quota maggiore del prodotto na zionale lordo. Non molto: il 2 per cento in più, ciò che awicine rebbe il governo americano ai governi europei». Dunque, l'aumento della spesa pubblica sarebbe il cardine della sua politica economica? «Sì, anche se Clinton preferisce parlare di investimenti pubblici La parola "spesa" non gli piace Beninteso, qualcosa di utile può fare: per esempio, migliorare le infrastrutture, che sono state molto trascurate nel recente passato. Almeno a parole, il par tito democratico sembra render si conto che la crescita impren ditoriale è la cosa più importante di tutte, che è anzi la premessa per fare le altre riforme politiche che dicono di voler fare. Ma la crescita però può essere osta colata da un governo superattivo. E questo è il mio timore: che Clinton voglia organizzare un po' troppo il futuro, che nutra ambizioni troppo grandiose». Un simile rischio con Bush non ci sarebbe. «No, il meglio di Bush è proprio la scarsa presenza della Casa Bianca nella vita nazionale». Come immagina la politica estera di Clinton? «Difficile immaginarla. Credo che sarebbe un convinto multi lateralista, nel senso che cerche rebbe di agire sempre dentro le istituzioni internazionali esi stenti, come l'Onu e la Nato. E comunque assai meno interessa to di Bush alla politica estera Non vedo un Clinton che crea una coalizione internazionale e caccia gli iracheni dal Kuwait». E per ultimo: quale sarà il posto di Ross Perot nella storia politica americana? «Una noterella a pie di pagina» Gaetano Scardocchia «Ha inaridito il partito repubblicano Reagan voleva fare qualcosa Lui vuole soltanto essere qualcuno» menca A sinistra Bush sul treno con cui ha attraversato molti Stati cercando di ribaltare i pronostici Barbara in visita ad un asilo

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