MALAPARTE proibito di Curzio Malaparte

MALAPARTE proibito Lo; scrittore «maledetto» girò un unico film e venne stroncato. Esce la sceneggiatura MALAPARTE proibito EUCHINO Visconti «è un dilettante, decadente, pederasta, un esteta già sorpassato»; Ivan il terribile di Eisenstein è «brutto, declamatorio, enfatico, dannunziano»; Roma città aperta di Rossellini è «pieno di sadismo e di crudeltà crudelmente espresse... l'arte non ci ha nulla a che fare, con quella roba». Su film e cineasti, i giudizi di Curzio Malaparte erano perentoriamente sbagliati: e lui? Un libro curato da Luigi Martellini (Edizioni Scientifiche Italiane) pubblica adesso con grande apparato di varianti e note di lettura, con un bel saggio introduttivo, la sceneggiatura inedita (conservata nell'archivio del Museo del cinema di Torino al quale venne donata dalla sorella dello scrittore) del primo e unico film realizzato da Malaparte, Il Cristo proibito: scritto dal 1945, contrattualmente definito nel 1947 come romanzo, trasformato nel 1949 in soggetto e poi in sceneggiatura, girato nell'estate-autunno del 1950, proiettato nel 1951, presentato ai Festival di Cannes e di Berlino. Rimasto unico; ma non per scelta dell'autore, non per Ragioni commerciali né perche come regista lo scrittore fosse stato rifiutato dagli spettatori. Costato poco più di cento milioni (la gente di Montepulciano e Sarteano aveva partecipatoipenza convpenso-alle scene di massa), in otto anni di vita (195}j1959) il film incassò" 156 mili|8jii: più o meno quanto incassarono nello stesso tempo film-cruciali della storia del cinema italiano quali Bellissima di Visconti (160 milioni) o Miracolo a Milano di De Sica (180 milioni). La sfortuna del rapporto di Malaparte con il cinema ebbe altra origine, inerente alla natura e alla cultura dello scrittore (aiutano a capire l'essenziale Malaparte e il cinema di Maria Adriana Prolo e LArcitaliano, l'affascinante biografia di Malaparte scritta da Giordano Bruno Guerri). A cominciare dal debutto tardivo: «Mussolini non s'è mai fidato di me, mi ha sempre impedito d'avvicinarmi a uno studio cinematografico. E' per questo che debutto a cinquantanni». Il momento del debutto, come tanti altri momenti nella vita tumultuosa e provocatoria di Malaparte, era acceso: il suo romanzo La pelle aveva avuto enorme successo di pubblico e di scandalo, era stato messo all'indice dal Sant'Uffizio, aveva provocato quasi una guerra d'accuse e contumelie dell'establishment di Napoli contro lo scrittóre, aveva procurato anche molti guadagni a Malaparte, fondatore con una signora veneziana della casa editrice Aria d'Italia destinata a pubblicare l'opera rischiosa che fati- cava a trovare editori. Successo e clamore gli permisero finalmente di rendere concreto quel suo interesse per il cinema nato molti anni prima, trovò con facilità un produttore per II Cristo proibito nella Minerva Film, chiarì in molte interviste alla stampa internazionale le sue intenzioni: «Mostrare come uh popolo intelligente e di antica civiltà quale il popolo italiano possa affrontare e risolvere da sé, da sé solo, i problemi tipici del nostro tempo, a esempio il problema dell'innocenza e della responsabilità individuale e collettiva, senza l'aiuto di nessuna autorità costituita, senza l'aiuto cioè né della Chiesa, né dello Stato, né di partiti politici». Nell'Italia 1950 iperpoliticizzata dell'egemonia democristiana, della cultura di sinistra, della guerra fredda, propositi simili suonavano anarchici, arroganti o (peggio) «poetici». Insisteva Malaparte, con accenti curiosamente attuali: «Non appare mai un rappresentante dell'autorità religiosa né un rappresentante dell'autorità laica, come se il film fosse ambientato in un Paese assolutamente libero, fuori d'ogni morale di Stato, d'ogni morale autoritaria. Il popolo del Cristo proibito è infatti un popolo libero, e civile, che da sé solo sa trovare la via della propria salvezza, così nel campo sociale come in quello morale». Con prudenza, personalmente Malaparte non si sottraeva tuttavia alle «autorità»: obbedendo alle coazioni d'epoca, la sceneggiatura de II Cristo proibito venne preventivamente sottoposta al Padre Felix Morlion e al Centro Cattolico Cinematografico; ottenne «la piena approvazione degli organi religiosi», quindi anche le istituzioni censorie statali non trovarono nulla da ridire. Per ambientare il suo Cristo proibito, Malaparte spiegava d'aver scelto quella parte della Toscana «dove la natura è ma¬ gra, severa, essenziale, nuda. L'Italia di Giotto, di Masaccio, di Piero della Francesca... dove vive un popolo magro, taciturno, pieno di una profonda vita morale. La civiltà italiana è nata lì, in quelle terre, è quello il popolo più antico d'Italia». Nella sceneggiatura sono molti i richiami alla pittura (Mantegna, Goya) ma l'autore aveva voluto un film tutto suo: soggetto, sceneggiatura, dialoghi, commento musicale, regìa erano di Malaparte (non diversamente da quanto capitava nei loro film a Chaplin o a Orson Welles). Tra gli interpreti: Raf Vallone e Elena Varzi, coppia classica del primo neorealismo italiano; Anna Maria Ferrerò, Rina Morelli, Gino Cervi; Alain Cuny, poi divenuto l'attore-feticcio del cinema d'autore. Tra gli aiuto-registi, oltre al precario Umberto Scarpelli e a Paolo Heusch, c'era il giovanissimo Antonello Falqui, futuro regista televisivo dei più lussuosi e brillanti spettacoli di varietà degli Anni Sessanta. Il direttore della bellissima fotografia era Gabor Pogany, scenografo era il pittore Orfeo Tamburi che l'anno seguente avrebbe fatto l'attore in uno sketch di Rossellini, L'invidia. Film di poesia, d'arte e d'autore, consonante alla rivisitazione d'epoca della tragedia greca, abitato da quei problemi morali della colpa e della responsabilità e del sangue molto dibattuti dopo la seconda guerra mondiale, popolato da quelle immagini ieratiche che sarebbero poi state resuscitate da Pasolini, Il Cristo proibito racconta di un reduce trentenne che torna al suo paese rurale tardi, nell'autunno del 1950, dopo dieci anni sul fronte russo e in prigionia dei sovietici. Il soldato sconfitto che rivede la patria vinta e distrutta torna deciso a vendicare la morte del fratello diciassettenne, denunciato come partigiano da un traditore e fucilato dai nazisti. Ma il paese (anche la madre del reduce, anche la ragazza che lo ama) è stanco di violenza, non vuole più sangue né lotte fratricide, non crede più nel potere della giustizia né del sacrificio, cerca soltanto pace: nessuno accetta di rivelare al reduce, accolto con timore e sospetto, il nome del traditore che tutti conoscono. Un povero falegname con un'antica colpa da riscattare, Cristo moderno, tenta invano di convincere il reduce dell'iniquità della vendetta: «Non c'è giustizia in chi uccide, né in chi giudica gli assassini, né in chi sotterra i morti... L'unica forma di giustiza è il sacrificio. Morir come Cristo, per gli altri...». Non riesce a persuaderlo, e lo inganna: fa credere al reduce d'essere stato lui a tradire, si fa ammazzare, così quando il reduce conoscerà il nome del vero traditore non lo ucciderà, l'innocente ha già pagato per il colpevole, l'agnello, simbolo cristiano della redenzione, si è sacrificato. Malaparte, il Maledetto che pensava in grande, aveva sempre infastidito, irritato, allarmato il mondo della cultura. Si capisce che, nonostante la sapienza narrativa e la bellezza formale notevolissime per un regista debuttante, un film simile non fosse fatto per piacere alla maggioranza della critica, spesso di formazione realista, marxista o cattolica osservante: «Ridondante, barocco, egocentrico, compiaciuto, effettistico», furono i giudizi più blandi, a volte veri. Malaparte, aggressivo, attaccò i critici: «Invidiosi, lividi, gretti d'animo e scarsi d'ingegno, piccoli di statura o storti o brutti, o sono malati di stomaco o han le mani sudate o si lavan poco». Al Festival di Cannes Cristo proibito non venne premiato, a Berlino ebbe un premio minore (sdegnato, Malaparte neppure andò a ritirarlo). Le speranze di sedurre Hollywood caddero: a una coppia di produttori americani andati a Roma per trattare una versione cinematogràfica de La pelle (la realizzò poi nel 1981 Liliana Cavani, e senza successo), Malaparte volle far vedere II Cristo proibito; nel buio i due, credendo di non venir capiti, cominciarono a sfottere e criticare il film; Malaparte s'alzò gridando, «stronzi, bastardi, fottuti, rottinculo» e se ne andò senza salutare. Fallirono tutti i tentativi dello scrittore per continuare a fare il regista, con produttori italiani o tedeschi o francesi, con copioni intitolati Foco umido, Il compagno di viaggio, Il grande Ming, Colpo mancino, L'oro del Reno: nessuna sceneggiatura diventò film, la proscrizione dal cinema addolorò il Maladetto Malaparte per tutti gli ultimi anni di vita, sino al 1957 della morte. Del Cristo proibito, la cui storia straordinaria è ora raccontata nel libro curato da Luigi Martellini, non si parlò più. Soltanto la seconda rete televisiva della Rai l'ha trasmesso una notte, l'anno scorso: alla metà di luglio, dopo mezzanotte, e tagliato di venti minuti. Lietta Tornabuoni «Critici invidiosi, lividi, gretti d'animo e scarsi d'ingegno» La presentazione di «Il Cristo proibito» a Parigi nel giugno 1951 Raf Vallone e Anna Maria Ferrerò nel «Cristo proibito». In alto un'altra scena del film. Sotto Curzio Malaparte