Jaruzelski: così ho salvato la mia Polonia e l'Europa

Jaruzelski: così ho salvato la mia Polonia e l'Europa anni fa si ritirava, oggi si rivela: in anteprima le memorie Jaruzelski: così ho salvato la mia Polonia e l'Europa ■m t| ELLA primavera del 1933 i miei genitori decisero di ■ iscrivermi a scuola, a Varsavia. A quel tempo in * 11 Polonia c'erano alcune scuole private di grande rinomanza; in particolare una di Chyrow vicino a Leopoli, diretta dai Gesuiti, e un'altra a Rydzyna, presso Poznan. Quella dei Marianisti, o Fratelli della società di Maria, a Varsavia, era considerata una delle migliori della capitale. I miei avevano deciso da un pezzo di mandarmici, malgrado il costo molto elevato della frequenza e della pensione (circa 250 zloty al mese, quando lo stipendio medio era sui 100 zloty) (...). Va da sé che la religione era onnipresente. Preghiera in comune, ogni mattina, nella cappella. Preghiera all'inizio della prima lezione e alla fine dell'ultima, prima e dopo ogni pasto. La domenica, le feste religiose e il primo venerdì di ogni mese andavamo a messa. Mi sembrava del tutto naturale. I nostri educatori erano in maggioranza sacerdoti. C'erano pure numerosi allievi che avevano scelto la carriera ecclesiastica; per loro l'istituto era come un piccolo seminario. Conservo ancora oggi un ricordo commosso di questa scuola. Vi ho imparato molto, tanto nel campo del sapere quanto nella visione del mondo. Sebbene il mio pensiero politico abbia seguito altre vie, riconosco che devo alla scuola alcuni aspetti del mio carattere, il senso di certi valori morali e sociali, il gusto della tradizione e della cultura. I dirigenti di Mosca avevano costituito fin dal mese di settembre ( 1980, ndr) un gruppo di crisi che in seguito chiamammo «il club polacco». I suoi membri erano Suslov, Gromyko, Ustinov, Andropov, Russakov (incaricato delle relazioni con i Paesi fratelli), Cernenko (allora segretario di Breznev). Questi uomini non capivano niente della Polonia. I vecchi guardiani del tempio non vedevano che il fuoco sacro stava vacillando. Non potevano ammettere che i polacchi (o chiunque altro) rimettessero in discussione i dogmi del sistema. L'idea stessa che i sindacati non svolgessero più il compito di cinghia di trasmissione del partito era per loro un'eresia. Che dire allora del concetto di sindacati indipendenti...? Noi ci sforzavamo di far comprendere ai sovietici il carattere specifico della Polonia, le sue particolarità. Ma loro non potevano, e non volevano, capirne niente. Citerò a riprova di questo la frase che Gromyko, venuto apposta a Varsavia, pronunciò davanti a Kania e a me durante una conversazione sui nostri problemi: «Non vedo perché ciò che è buono per gli ucraini, i cecoslovacchi, i georgiani, non deve andare bene per i polacchi...». . . mÉ Il 10 marzo (1981, ndr) incontrai per la prima volta Lech Walesa, presso la sede del Consiglio dei ministri. Confesso che provavo un misto di impazienza e di diffidenza all'idea di ricevere l'uomo che occupava ormai la posizione di primo piano sulla scena del Paese, e simboleggiava tutti i problemi con cui ci confrontavamo da quasi un anno. Desiderando fargli cosa gradita, avevo fatto cercare il comandante del reparto in cui Walesa aveva prestato servizio militare. Fu dunque il colonnello Wladyslaw Iwaniec che lo accolse prima del nostro colloquio. Sono sicuro che Walesa lo apprezzò. La prima parte della nostra conversazione si svolse a quattr'occhi. Osservavo con interesse quell'uomo dallo sguardo acuto che sfoggiava un pittoresco paio di baffi e, sul risvolto della giubba, due distintivi: quello di Solidarnosc e quello della Madonna nera di Czestochowa. Una vera professione di fede... In quel primo incontro, scoprii un interlocutore più aperto del previsto, e anche più conciliante. Ci trovammo d'accordo per lottare contro i conflitti e Ù decimo dell'economia. Riconoscemmo altresì la necessità di migliorare la collaborazione fra governo e sindacati. Quando attirai la sua attenzione sul numero crescente di manifestazioni antisovietiche (accuratamente rilevate e sfruttate dai nostri vicini), Walesa mi assicurò che avrebbe provveduto a farle cessare: «Generale, mi occuperò io di quegli orsacchiotti» (a quell'epoca, le pubblicazioni semiufficiali di Solidarnosc rappresentavano i sovietici con le sembianze di orsi). (...) Purtroppo, Walesa, che ebbi ancora occasione di incontrare più volte, era completamente imprevedibile. Tanto si dimostrava uomo responsabile, ponderato, cosciente della posta in gioco, quando parlava con noi, altrettanto, in occasione delle riunioni del suo sindacato, si lasciava trasportare dall'atmosfera locale e non esitava a prendere, a volte, posizioni diametralmente opposte a quelle assicurateci il giorno precedente. Sconcertante, di certo, ma non credo machia- vellico. Credo che in quest'uomo, dall'innegabile carisma, il temperamento prevalga sul calcolo. Il 26 marzo incontrai per la prima volta il primate di Polonia, il cardinale Wyszynski. Quel prelato mi impressionava per più di un motivo. Conoscevo il suo passato, le prove che aveva dovuto subire negli Anni Cinquanta, in particolare durante la prigionia. Mi erano note la sua determinazione e la sua intransigenza. Sapevo pure che il cardinale era prima di tutto un patriota profondamente, visceralmente legato al destino del suo Paese. Esprimeva sempre rispetto per lo Stato polacco. Così, quando si trovava all'estero (avvenne, tra l'altro, a Bonn e a Roma), Wyszynski non mancava mai di recarsi all'ambasciata del nostro Paese. Nello stesso modo quando, in Polonia, i fedeli intonavano uno dei più celebri inni religiosi, rifiutava di cantare le parole che i nostri più accaniti avversari vo¬ levano imporre: «Signore, degnati di ristabilire la libertà della nostra patria», ripristinando il testo originale: «Signore, degnati di benedire la nostra patria libera». Si era sempre battuto per salvaguardare la posizione e l'autorità della Chiesa, ma aveva sempre vigilato affinché questa lotta, accanita e senza quartiere, non portasse danno agli interessi dello Stato. Combatteva per difendere gli interessi della Chiesa o dei credenti, ma era attento a preservare la posizione internazionale dello Stato. s k Chi può affermare che, dopo la reazione a catena che si sarebbe inevitabilmente prodotta in Polonia e in Europa se non avessimo agito come abbiamo agito, sarebbero state possibili la perestrojka e la nostra «tavola rotonda»? Chi oserebbe avanzare l'ipotesi che una guerra civile o, peggio, un intervento armato sovietico sicuramente inevitabile non avrebbero congelato ancora per molti anni un mondo diviso, antagonistico, murato nei suoi patti militari e cristallizzato nei suoi bastioni ideologici? Noi polacchi abbiamo cono sciuto il purgatorio. Senza affermare che oggi abbiamo diritto al paradiso, so che abbiamo evitato l'inferno. Questo purgatorio ha fatto di noi uomini diversi. Siamo cambiati. Abbiamo potuto, come gli altri di fronte a noi, eliminare gli estremi e imparare l'arte del compromesso. E soprattutto scoprirci gli uni con gli altri. (...) Pur avendo deciso di considerarmi unico responsabile della decisione che avevo preso, fui ferito da certi giudizi che vennero espressi allora su di noi, e in particolare su di me. Mi aspettavo gli insulti, ma non la perfidia offensiva. Non mi stupiva che mi chiamassero «il Pinochet polacco» e facessero dello spirito sui miei occhiali scuri. Ma il fatto che un uomo politico americano mi definisse «un generale sovietico in uniforme polacca» mi ferì nel profondo dell'anima per la sua enorme ingiustizia... Wojciech Jaruzelski Le gravi decisioni dell'81, gli incontri con Walesa, uomo ricco di carisma ma imprevedibile, e con Wyszynski: un vero patriota Le memorie di Jaruzelski, dal titolo Un così lungo cammino, stanno per uscire da Rizzoli. Oggi l'autore arriva a Roma per la presentazione. Il generale polacco che il 13 dicembre '81 impose alla Polonia lo stato di guerra e poi ne pilotò la lenta ma pacifica evoluzione democratica, rivela una personalità ricca e sfaccettata. Pubblichiamo in anteprima una scelta delle pagine più significative. A scuola dai preti: ne conservo ancora oggi un ricordo commosso. Gromyko egli altri capi di Mosca non capivano niente di noi polacchi reti: oggi sso. capi ano cchi anni fa si Jalaun misto di impazied ll'id di i