Messner, è finita l'avventura

Messner, è finita l'avventura L'autobiografia dello scalatore attacca l'alpinismo-show e apre la polemica Messner, è finita l'avventura Divisi gli appassionati: «Fortissimo», «Furbissimo», «Narciso» «E l'ultimo eroe romantico». «No, lui è un eroe del marketing» viL riposo del guerriero I scatena la polemica. I Reinhold Messner, 48 I anni, con Walter Bonatti S il più completo scalatore italianp, ha scritto una autobiografia - ha libertà di andare dove voglio (Garzanti) - in cui annuncia di non sentirsi più soltanto un alpinista bensì un camminatore: «Io sono un viandante e so che camminerò per tutta la vita». Ma il libro suona come un De profundis del grande alpinismo e della sua epopea; è come se la vicenda di Messner, ricca di straordinari exploit, dal settimo grado in Dolomiti alla prima solitaria sull'Everest, fosse il «The End» della storia dell'alpinismo: «Non si può salire più in alto dell'Everest», egli scrive nell'ultimo capitolo. L'edizione originale, in lingua tedesca, uscì, non a caso, tre anni fa, all'indomani dell'ultima spedizione, quella alla Sud del Lothse, progetto ambizioso, in cui lo scalatore altoatesino guidava il fior fiore dell'alpinismo moderno, con personaggi del calibro di Profit, Kammerlander, Hajzer e Wielecki. La spedizione si fermò a quota 7200. L'uomo che per primo ha realizzato la salita di tutti i quattordici ottomila della Terra confessa di non essere più lo stesso: «Negli ultimi anni non mi è importato più di essere uno scalatore migliore degli altri o di stabilire chissà che record. Era più importante raccogliere esperienze. Però, di anno in anno, dopo ogni successo, mi è risultato sempre più difficile. Avevo distrutto dei miti e ora loro si vendicavano». Ma la parabola diventa emblematica di una involuzione che vive tutto il mondo alpinistico. E' lo specchio di una crisi: «Non è soltanto per mantenere le promesse che ho fatto a mia madre che evito oggi di intraprendere ulteriori ascensioni sugli ottomila», scrive Messner. «Me ne tengo alla larga anche perché le montagne più alte sono ora eccessivamente affollate. E' sempre più difficile realizzarvi le avventure». Questo accade perché le scalate sono «la messa in scena di uno show». L'avventura svanisce se «mancano le condizioni fondamentali: l'isolamento, l'incertezza e i pericoli». Quello che domina è «l'alpinismo-show». Messner, dunque, è sceso dalle cime perché lassù l'avventura è morta o è diventata uno show? Lui è stato l'ultimo dei Moicani, che ha aperto e chiuso la stagione finale dell'alpinismo di conquista? Una cosa è certa: Messner è l'unico scalatore degli Anni Settanta e Ottanta conosciuto da tutti gli italiani, anche da chi non è alpinista. Gianni Vattimo ne ha fatto il simbolo dell'eroe dell'inutile, Massimo Mila recensiva ogni suo libro. Nel bene e nel male, è diventato un fenomeno dell'immaginario collettivo. Dice l'attore Vittorio Mezzogiorno, che ha fatto la parte di Messner nel film Grido di pietra: «L'ho visto solo una volta. Lo immagino un uomo cocciuto e solitario. Uno che ha un estremo bisogno di cose assolute». Dice lo scrittore Mario Rigoni Stern, che è stato scalatore: «Mi colpiscono in lui la forza di volontà e un certo esibizionismo. E' uno che cerca di fuggire da qualcosa ma non ci riesce». «Non c'è uno bravo se non c'è uno più bravo», obbietta però Cesare Maestri, l'arrampicatore di Madonna di Campiglio ribattezzato «il ragno delle Dolomiti» che, a sessant'anni splendidamente portati, mantiene vivo il gusto della polemica: «Non nutro un'enorme simpatia per Messner, perché non ho mai avuto simpatia per chi crede di avere in tasca la verità. Non mi va a genio chi è come l'olio: sempre sopra. Messner è stato un fortissimo alpinista, ma non è l'ultimo alpinista. Ci si dimentica che ogni impresa va vista nel suo momento storico. Ci si dimentica anche che in montagna ognuno vive l'avventura al proprio livello: conosco tanta gente che fa solo il terzo grado e io dico che sono veri alpinisti». Messner ha snobbato l'am¬ biente alpinistico, incominciando dal Cai, e l'ambiente lo ha ripagato di ugual moneta. La svolta avvenne nel 1972 dopo cinquanta prime ascensioni, venti solitarie estreme e l'odissea del Nanga Parbat, in cui perse un fratello. «Mi dimisi da tutte le associazioni alpinistiche. I cliché del "cameratismo in montagna", dell'idealismo, dell'amor di patria mi erano diventati sospetti». Era l'alpinista intellettuale e individualista, la cui bandiera era un fazzoletto. I giovani affollavano le sue conferenmze. Ma Riccardo Cassin, il vincitore della Walker, cultura operaia, lo considerava un furbo di tre cotte. Reinhold è stato il primo esplosivo fenomeno pubblicitario registrato dall'alpinismo. Nella seconda metà degli Anni Settanta, campeggiava come testimonial di una macchina fotografica giapponese su giornali, riviste, manifesti e cartelloni. Era diventato un professionista dell'alpinismo, ma nell'ambiente erano in molti a chiedersi chi lo pagasse. «"Sono sponsorizzato dal demonio", avrei dovuto rispondere e forse mi avrebbero creduto. Perché tutte le altre risposte erano troppo legate al meccanismo del mercato per non scatenare i moralismi e le aggressività dei miei colleghi». Una figura contraddittoria? «Ma sì, un grandissino istrione, un Narciso, un pazzo, un egoista», risponde Emanuele Cassare, autore de La morte del chiodo, ideatore delle gare di arrampicata sportiva. «Come tutti i grandi alpinisti, non vuole uscire dalla luce dei riflettori. Fortissimo e furbissino. Uno che c'ha il fisico. Con il sorriso cinematografico. Con lo sguardo profondo. Eccolo lì: capace di piangere, ma anche di vendersi. Un tipico prodotto del suo tempo. Il quale, però, non dimentichiamolo, ha realizzato il sogno dei sogni, il record dei record: la salita in solitaria e senza ossigeno della montagna più alta del mondo dal versante Nord. Non si può fare di più. Ha ragione lui. Dopo di lui l'alpinismo è finito». «Ciò che conta è l'immagine che Messner ha saputo comunicare: di uomo libero», dice Enrico Camanni, fondatore e di- rettore di Alp, ex istruttore di alpinismo. «La scarsissima attenzione che oggi il pubblico dedica all'alpinismo è dovuta al fatto che le imprese importanti, come quelle di Tomo Cesek, appaiono frutto di meccanismi di mercato. La gente lo avverte. Invece Messner, come Bonatti, creava il pathos. Lui ha rotto le frontiere di un ambiente fondamentalmente chiuso e si è rivolto direttamete al grande pubblico. Poteva permetterselo: su tutti i terreni, era sempre un passo avanti. E' il simbolo di una cultura nata col romanticismo che muore con lui». «No, l'alpinismo era già morto quando Messner è entrato in scena. Non è un eroe romantico ma è un eroe del marketing», contesta il torinese Pietro Crivellaro, accademico del Cai, storico dell'alpinismo. «L'alpinismo finisce nel 1964, con la salita dell'ultimo ottomila, ed è significativo che nel 1965 si ritiri Bonatti. Messner è un fuoriclasse, ma non innova alcunché, a differenza di un Bonington. Diventa famoso con un problema inventato, la salita di tutti i quattordici ottomila, un problema alpinistico che in natura non esiste, e lo vende al pubblico dei profani come si vende il Dixan». «Il vero problema è che tu oggi non hai più nulla da esplorare, non hai più nulla da scoprire», dice lo scrittore Daniele Del Giudice, che per amore dell'avventura ha conseguito il brevetto di volo. «Prendiamo le spedizioni di Scott o Shackleton: allora fare una spedizione antartica era come andare sulla Luna. Quella dimensione di solitudine oggi la puoi riprodurre solo artificialmente. Il tuo percorrere diventa un ripercorrere. Fare un viaggio significa andare alla ricerca di chi l'ha già fatto. La vera avventura è scoprire le storie di chi ha già fatto quello che tu vuoi ma non puoi più fare». E pensare che Messner scrive: «Da quando ho smesso di voler essere solo alpinista, c'è più pace nella mia vita». Alberto Papuzzi Maestri: «Non mi è simpatico» Mezzogiorno: «Un solitario» Rigoni Stern: «Cerca di fuggire» Del Giudice: «Non c'è più nulla da esplorare o da scoprire» j* '* \ , É* Nelle due fotografie più grandi Reinhold Messner. La sua autobiografìa si intitola «La libertà di andare dove voglio». Nell'immagine piccola Pietro Crivellare storico dell'alpinismo A destra, lo scrittore Daniele Del Giudice. E' stato in Antartide e ha la passione del volo A sinistra, Cesare Maestri grande arrampicatore nel primo dopoguerra

Luoghi citati: Antartide, Campiglio