«Cavaliere, non guastare il mio sogno»

«Cavaliere, non guastare il mio sogno» Lettera aperta dell'ex presidente Rai a Berlusconi: «Se ama la gara, non ne faccia un affare» «Cavaliere, non guastare il mio sogno» Zavoli: vi racconto il grande amore per il Giro UN UOMO E LA «SUA» CORSA CARO cavalier Berlusconi mi pare che la circostanza giustifichi il ritorno, dal nostro abituale darci del «tu», a quel «lei» che ci separava ai tempi del «Mundialito», quando Rai e Fininvest inaugurarono la Grande Rivalità. Gli è che lei, stavolta, non ha solo strappato alla mia azienda un pezzo di televisione, ma a me stesso un brandello di vita. Sembra impossibile che si possa comprare, al pari di qualunque altra merce, una specie di sogno; o, se vuole, che una specie di sogno sia di una tal natura da stare sul mercato fino a farsi acquistare. Forse è andata così. Lei ha detto: «Quanto costa questo sogno? 20 miliardi? Lo compro». Perché? Per ricavarne un affare, è ovvio. Come immaginare un altro motivo? Ma tutto sarebbe diverso se, al contrario, avesse davvero inteso comprare, si fa per dire, una chimera. Del resto, non ci ha ricordato che un suo zio, lei bambino, seguiva il Giro sulla vettura pubblicitaria del dentifricio Binaca? Posso dunque azzardare che ancora oggi lo immagini a cavallo di quel tubo bianco e giallo, quasi un siluro posato sul tetto della macchina; e credere altresì che a quel parente già dedito, mezzo secolo fa, ai consigli per gli acquisti, lei attribuisca qualità profetiche poi inveratesi nel suo stesso destino. Eppure, per quanto mi riesca difficile, amerei supporre che lei abbia intuito, almeno alla lontana, quanto io e quelli della mia risma sappiamo: che il Giro dev'essere valutato non in base a ciò che appare, ma secondo ciò che non è. Non è, infatti, uno sport. Oppure lo è di un genere tanto speciale che il più adatto a parlarne, se ne sarà accorto, non è chi meglio lo conosce, bensì chi più riesce a inventarlo. Se il Giro è dunque metafora, o enigma, si può davvero sperare che anche lei, sotto sotto, lo veda diverso da una merce? Se è così mi segua, perché mi dispongo a dirle ciò che quella corsa rappresenta per me, donde viene la fuggitiva chimera di cui lei si è impadronito, quasi fosse l'astro docile e arcano del film di Fellini «La voce della luna». Per inciso: Federico incastona nella luna, quando riappare, il volto della ragazza amata da Benigni; lei avrebbe resistito alla tentazione di piazzarci diciamo un Binaca? Sarebbe un bel test per capire se, come è augurabile, anche lei crede ai prodigi. Questa mia consonanza col Giro d'Italia l'ho già raccontata, ma non oso pensare che mi abbia letto. Lei sa, invece, che la mia origine è romagnola. Da quelle parti, in giovanissima età, ha persino conosciuto due mie cugine, che oggi se ne fanno un piccolo, discreto e comprensibile vanto. Ebbene, io non ebbi, allora, la folgorazione provocatale da suo zio, ma fui a mia volta illuminato da una creatura straordinaria. Si chiamava Widmer, era figlio di Elconide Moretti, l'infermiera non diplomata che faceva iniezioni magistrali lungo tutta via Trento, la mia strada; a qualunque ora, senza strofinamenti e con la mano sinistra. Quanto al padre, un analfabeta, aveva mandato a memoria ciò che stava scritto su ogni marmo della città, dalle iscrizioni romane all'elenco dei caduti in guerra, dagli editti comunali alle epigrafi del Tempio Malatestiano, e illustrando ai turisti, riga per riga, tutta quella storia si era guadagnato il necessario per morire, un poco ogni sera, nelle cantine che sapevano di vini giovani e di sigari spenti, le stesse dove si era distinto suo nonno e, prima ancora, il bisavolo. Ilare per natura, amava provocare sensazioni gioiose; così, offriva da bere a chiunque gli sembrasse infelice o solo rabbuiato. Ma quando voleva indurre l'Elconide a un sorriso, le ricordava il più bel pezzo del suo repertorio: il concepimento di Widmer su un barchino, a due miglia da terra, grazie a un equilibrismo del quale la moglie parlava ancora, di tanto in tanto, con una ammirazione un po' pudica e un po' spericolata; sicché il ragazzo, ascoltando, si era fatto della vita un'idea quanto meno di instabilità. Quell'origine quasi funambola, non so se in bilico fra due onde o due sbornie, lo rendeva ai miei occhi il più affascinante degli amici. Al contrario di me, che ogni mattina risalivo in fretta dal sonno, lui vi rimaneva a lungo impaniato, indugiando in un mondo di splendide infondatezze. Era dunque il compagno ideale dei mattini vissuti nell'attesa del Giro. Su una vecchia bicicletta dipinta di giallo, andavamo a prendere posto dove finiva il Ponte di Tiberio, in direzione di Santa Giustina, con un paio d'ore di anticipo. Là, e non altrove, perché avevamo capito che sui lastroni sconnessi di pietra romana i cerchi fatui della bicicletta da corsa, se non rallenti, si spezzano; e c'era quindi la seppur remota possibilità di assistere a un crollo generale che avrebbe consentito di trattenere a lungo quella meraviglia. Ma non appena imboccava il ponte, il Giro si metteva in fila indiana, come in un camminamento; allungandosi, e procedendo guardingo. I corridori, sollevati dal manubrio per non gravare sulle ruote, avevano i volti in piena luce, e profittavano della tregua per mangiare. Dopo il ponte, invece, la via Emilia si apriva a tutti i giochi: d'improvviso un corridore schizzava via, e il Giro ne rimaneva scompigliato. Era il momento in cui i corridori si liberavano del cibo rimasto nelle ta- sche, in fondo alla schiena. Finivano nei fossi persino le banane, mai viste, neppure a Natale, dai loro figli; i corridori più anziani le gettavano soltanto quando lungo i cigli vedevano i bambini, accendendo furiose gazzarre. La scoperta della postazione, frutto di lunghi studi, non veniva svelata a nessuno. Men che mai a quei compagni che, avendo del Giro un'idea distratta, se non ostile, giudicavano privi di senso l'appostamento e l'attesa. Non sapevano che avevamo un compito fondamentale per la sorte della corsa: gettare acqua sui visi arsi dei pedalatori, annunciare loro, con un cartello, i chilometri ancora da percorrere, sventolare una bandiera rosa, il colore dell'infatuazione, quando transitava, tenero come un petalo, il primo in classifica. Io dovevo badare ai cani, perché non attraversassero la strada. Bisognava essere stati in quell'osservatorio e avere lungamente guardato l'orizzonte con gli occhi socchiusi, come da una feritoia, per apprezzare in ogni aspetto, reale e fantastico, la comparsa dei corridori sul vecchio ponte, bianco e ingobbito. Era tale la voglia di vederli che gli occhi diventavano come un binocolo con cui avvicinare la scena, in un tumulto di gomitate, o rimetterla al suo posto a ogni falso segnale. Il Giro si rivelava di colpo, in un'aura splendente. Avevo visto qualcosa di simile nella chiesa dei Servi, in un ex-voto; nuvole attraversate dai raggi del sole, miracolati raggiunti in pieno petto da un dardo luminoso, e angeli a corona, con gli occhi rovesciati, in una luce celestiale. Dall'abbagliante prodigio che prendeva forma all'inizio del ponte spuntavano prima le teste, poi le spalle, quindi le braccia e infine tutto il corridore con i tubolari incrociati sul petto che gli davano un'aria di martirio. Quando il plotone ci sfilava dinnanzi lo guardavamo in silenzio, attoniti, quasi assistessimo all'arrivo di Costantino a Ponte Milvio, preceduto da un tripudio di insegne, drappi e bandiere. Su tutta quella fatica mancava solo la croce. In testa, una volta, passò Cazzulani. Così altero nell'inaugurare la fila, e imbiancato dalle strade d'Italia, sembrava il monumento alla fatica. Per lui, quella mattina, il nostro empito ciclistico toccò un culmine quasi religioso; figurarsi, dunque, se potevamo vivere la nostra fede al di fuori di una cerchia di credenti. Quando la carovana era tutta passata e in fondo alla strada spariva anche l'ultimo sidecar con tre energumeni a bordo, occhialoni gialli e spolverino bianco, i quali agitavano una bandiera rossa per avvertire che dietro non c'era più nulla, e la gente poteva riprendere i suoi traffici, si restava in silenzio, incapaci di andarsene. Possibile che non vi fosse più nulla da aspettare, da vedere e da gridare? Che tutto avesse avuto fine in un lampo? Allora, scomparsa la corsa in un fulgore di metalli e di polvere, ci riversavamo sulla strada. I cani, usciti a loro volta dai fossi, si univano eccitati al confuso disperdersi dei padroni; era proprio finita, potevamo andar via, incontro a una solitudine che sembra¬ va definitiva. Soprattutto a Widmer, il più privato del prodigio e quindi il più solo. Chi viveva nella parte marina della città prendeva il vialone del Kursaal, per correre verso la spiaggia. Assuefatti a stare, in quell'ora, sui banchi di scuola, e storditi dall'insolita vacanza, si rimaneva immobili sulla battigia offrendo il volto ai pulviscoli d'acqua sollevati dal vento. Era un'ebbrezza silenziosa, incomunicabile. Forse, cavaliere, le sarà ora più chiara la ragione dello sbigottimento per l'acquisto del sogno; e capirà meglio la mia meraviglia fra restia e invidiosa. D'altronde, non avrei mai potuto consentirmi, un giorno, ciò che a lei è riuscito. A me, quando divenni radiocronista, bastò poter seguire il Giro. Mi sembrava quanto di meglio si potesse chiedere al mese di maggio. E ancora oggi, quando arriva, il sangue mi si rimescola come un vino che risente la sua luna. Avevo frequentato il mondo del «Giro» e preso confidenza con tutta la sua gente; ma soprattutto con i ragazzi condannati a sprigionare energia come pulegge per un motore distante e insaziabile, quello del capitano. Che cosa avranno pensato, mi dicevo, Astrua, Catalano, Lievore? Che cosa sarebbe stato di loro, e di altri come loro, in un mondo ormai cosmico? Di Astrua, che arrivava al traguardo con gli occhi bianchi, come se per spingere sui pedali avesse espulso le pupille; di Catalano, che sui Pirenei, con i polmoni fra i denti, si tolse il berrettino e gettandolo nel precipizio gridò: «Va', vola almeno tu»; di Lievore, che si intestardì in una fuga di 167 chilometri, lui e la sua ombra, sapendo che davanti c'era un altro, ma un'occasione come quella per arrivare «secondo» non l'avrebbe avuta mai più? Che fine avrebbero fatto? Non successe nulla. Seduti sopra i sellini neri e sguscianti come sorci - il corpo ricurvo, i piedi chiusi dentro le gabbiette d'acciaio, una vibrazione che parte dalle braccia e finisce nelle scarpine - i corridori continuarono a consumare ancora la più lunga, la più dura, la più balzana delle fatiche. L'astronave li lasciò com'erano, soggetti alla gravità terrestre, alle prese con la vecchia condanna dell'orologio; la folla ricominciò a festeggiarli, e fu il segno che la Luna era tornata dov'era. Di quel viaggio nell'infinito restò la meraviglia di aver visto sorgere la Terra, un piccolo globo con tanti uomini come pulegge, con tante banane nei fossi, con tante gare per arrivare soltanto secondi, e magari terzi o meno ancora. Da Alba a Chivasso si pedala sempre un'ora buona, da sole a sole ne passano ancora dodici. Vincenzo Torriani e Jacques Goddet continuano a non essere Horatio Nelson e Karl Donitz; e anche noi che non viaggiamo sulle ammiraglie siamo quelli di prima. Caro cavaliere, mi pare proprio che qualcosa ci divida e ci unisca a proposito del Giro. E non so, a questo punto, come congedarmi. Se ritornando al «tu», in considerazione dello zio a cavallo del mega-dentifricio, o rimanendo al «lei», visto che quello zio, con i suoi consigli per gli acquisti, non mi sembra della stessa pasta, in ogni senso, del mio amico Widmer. Che dire? Vorrei crederle quando ha l'aria di volere, stavolta, acchiappare un sogno. E buon per lei se esso produrrà audience, oltre che illusioni. Ai tempi dell'indice di gradimento, perdoni la debolezza, il «Processo alla tappa» fu l'una e l'altra cosa, ma finì quando Giovanni Mosca, sotto una vignetta dal titolo «Processo alla teppa», scrisse, pressappoco, che il giorno in cui la televisione avesse trattato la politica così come faceva con il ciclismo, il Paese ne avrebbe ricevuto un grande vantaggio. Bastava molto meno per far drizzare le orecchie a Bernabei, discutibile finché si vuole, e pur sempre la prima, grande «antenna» del nostro Paese. La trasmissione, non a caso, morì lì. Costanzo, Minoli, Ferrara, Santoro, Lerner, Biscardi, De Luca avevano i pantaloni corti, ma il germe era ormai nell'aria. E oggi non fa più paura a nessuno; anzi, è una garanzia di salute. Adesso, cavaliere, devo congedarmi. Duecento righe per una rèverie, l'avrebbe mai detto? Ma noi due, sui contratti, abbiamo come un destino. Accadde anche per la Carrà, ricorda? E non di meno ho l'impressione che questa lettera bislacca non gliel'abbia scritta io, ma il mio amico Widmer, anche se non c'è più. Credo che solo lui, Coppi e Bazzuti sarebbero d'accordo quasi su tutto. Quasi, perché sull'acquisto non so. Ti saluto, Silvio, e tienmi bene la carovana. Sergio Zavoli «Non ha solo tolto un pezzo di tv alla mia azienda Mi ha strappato un brandello di vita» Sopra Silvio Berlusconi; a fianco Sergio Zavoli fra i giornalisti Luigi Chierici e Bruno Raschi durante un'intervista al francese Geminiani A sinistra Eddy Merckx con Italo Zilioli, sotto il campione belga in testa a un gruppo di fuggitivi nel Giro del 72 «Quando la tappa attraversa i paesi della bassa Padana è una vera festa» «Io badavo ai cani che non tagliassero la strada, ma tutto finiva in un lampo» Zavoli in moto intervista Adorni; in alto Torriani, qui sopra Baronehelli

Luoghi citati: Alba, Chivasso, Italia, Ponte Milvio, Santa Giustina, Widmer