Ora latta continua può andare in pensione di Enrico Deaglio

Ora latta continua può andare in pensione AMARCORD RA€€ONfA Ora latta continua può andare in pensione 77 tam-tam al telefono dei ragazzi invecchiati nel nome di Adriano SROMA I erano svolte tutte le cerimonie degli addii, con il cinquantenne Adriano Sofri, in attesa di 22 anni di galera, che accumulava affetti e si faceva gonfiare la faccia di baci. A Bologna un quartetto aveva suonato musica classica, a Roma Marco Pannella aveva promesso intemperie in caso di conferma della condanna. A Milano era stato affittato l'enorme teatro Smeraldo ed era stato chiamato a presentare la serata il giornalista Maurizio Torrealta. Ma brutto tempo e aerei avevano fatto sì che non arrivasse. Così era toccato a Toni Capuozzo, di Udine, presentarsi desolato su un palco spoglio ed annunciare: «Siamo qui per dare un saluto ad Adriano. Ma io non sono il presentatore, io sono quello che è andato a prendere il presentatore all'aeroporto ma non l'ha trovato». Applausi alla Groucho Marx, poi era salito a leggere una poesia triste Stefano Benni («Ho un gran magone, ma di quelli profondi»), la Gianna Nannini aveva cantato senza accompagnamenti «Maremma amara» nella versione più disperata, Vincenzo Consolo aveva paragonato il processo Sofri al processo Dreyfus e infine era stato il turno di Paolo Rossi, quello che fa il sogno di Giuseppe Pinelli che piano piano risale da terra fino alla finestra del quarto piano della questura. Strana storia, quella di Lotta continua. Movimento rivoluzionario nato nel 1969, diventato organizzazione nel 1975 con tanto di regole e statuto marxista e poi sciolta inaspettatamente l'anno dopo. Era stato il più numeroso gruppo della sinistra extraparlamentare italiana, ma aveva scoperto nel 1976 che la politica non reggeva come collante esistenziale. Così se n'erano andate per conto proprio femministe, sindacalisti, aspiranti guerriglieri, coltiva¬ tori biologici, insegnanti della scuola di Stato. Tutti a cercare una propria strada, con una certa arroganza interiore, come capita a chi si è abituato bene e vede intorno numerosa mediocrità. Quanti? Diecimila, ventimila, a seconda delle stime. Una piccola esperienza italiana, separata dai flussi ufficiali. Sicuramente sconfitta, ma orgogliosa di non mescolarsi all'esistente. Tante storie di diversi, di una diversità che ciascuno si sentiva dentro. Nel luglio del 1988, per tutte queste persone, apprendere che Sofri, Bompressi e Pietrostefani erano stati arrestati come organizzatori di un omicidio, fu uno choc. Come lo fu leggere le sicure convinzioni dei magistrati di Milano che parlavano di una struttura illegale, di una ferrea disciplina occulta, di esecutivi che dettavano leggi militaresche e mafiose. Ci fu angoscia, senso di onore perduto, vergogna, frustrazione per non riuscire a far valere la propria verità. Tutto questo è finito alle 21 di venerdì scorso, per i tanti incollati alla Radio popolare o alla Radio radicale quando è stato annunciato che «la sentenza è cassata...». Un flash di gioia improvvisa (Enzino è sceso in strada e si è messo a guidare la macchina suonando il clacson come se l'Italia avesse vinto i Mondiali). Un flash seguito il giorno dopo da una felicità, che rispetto alla gioia è più lunga e languida. E' una sensazione comune di svuotamento. Ci sarà un altro processo, ma la storia è chiusa. L'hanno fatto capire quegli sconosciuti nove giudici delle sezioni unite della corte di Cassazione, nonostante che alla vigilia si fosse scomodato, con senile cattiveria, Giulio Andreotti per far sapere ai giudici che per lui Sofri andava condannato. Finita. Adesso Lotta continua può sciogliersi davvero. Ma se ci fosse stata condanna dei 3 accusati, quei quaranta-cinquantenni meditavano ancora protesta, più anchilosata e lenta degli scoppi di ribellione giovanile ma più imprevedibile: digiuni, riunioni silenziose, incatenamenti. L'hanno chiamata con disprezzo una «lobby». Ma, a differenza delle lobby che intrigano per ottenere risultati politici o economici, la lobby di Lotta continua in questi 4 anni e mezzo si è data da fare semplicemente perché il suo pas¬ sato non fosse calpestato e ai suoi amici venisse garantito il diritto. Strane persone. Divisi ormai nella politica, ma suscettibili per quanto riguarda il ricordo della giovinezza. Patrioti stanchi, militanti di un partito che non c'è e che come partito non vuole niente. L'estate scorsa seguendo la protesta di Sofri hanno digiunato in 400. Telefonavano ai «centri di informazione» chiedendo se lo yogurt era ammesso. Nino, di Torre del Greco, che aveva avuto degli sbalzi di pressione, è andato dal medico per ottenere un permesso allo sciopero della fame, mentre professoresse, bibliotecari e consiglieri comunali mettevano mano alle rubriche telefoniche e ai fax rimettendo in funzione la vecchia, santa, rete dei numeri di telefono mai più sentiti, dei compagni di Lotta continua. Rispondevano: invecchiati, ma rispondevano. Dopo la sentenza telefonate anche per ringraziare quelli che avevano capito e solidarizzato e che ora non ci sono più: da Natalia Ginzburg a Leonardo Sciascia ad Alberto Moravia... Telefonate di sollievo di personaggi pubblici che si erano presi a cuore la vi¬ cenda e che consideravano Adriano Sofri un patrimonio nazionale da salvare. Un ricordo sommesso, insieme a tutti i morti, anche per quelli di Lotta continua. Che sono tanti, e alcuni hanno lapidi o nomi di strade e altri sono dimenticati: Mario Lupo e Tonino Miccichè; Pietro Bruno, Walter Rossi, Francesco Lo Russo, Giorgiana Masi, Alceste Campanile, Peppino Impastato che il boss Gaetano Badalamenti ordinò di uccidere a Cinisi, Mauro Rostagno che la mafia fece uccidere a Trapani... Finito. Ora è di nuovo tutto finito. Con la sentenza della Cassazione si ridisperde questo gruppo solitario che si era volontariamente sciolto sedici anni fa e che è stato riportato insieme - caso stravagante - da giudici e carabinieri. Finito. Hanno fatto 4 anni e mezzo di volontariato per i propri amici e per se stessi. Non era quello che avrebbero voluto. Ora chi potrà, si dedicherà alle più diverse cause utili rimaste in arretrato. Ognuno per sé, nel tempo che rimane prima d'andare in pensione. Enrico Deaglio Sciolta sedici anni fa Poi la «lobby» per l'amico A destra: Ovidio Bompressi Sopra: Giorgio Pietrostefani

Luoghi citati: Bologna, Cinisi, Italia, Milano, Roma, Torre Del Greco, Trapani, Udine