Lapalisse non diceva ovvietà

Lapalisse non diceva ovvietà Era un grande generale, ma è diventato celebre per un errore di trascrizione Lapalisse non diceva ovvietà Uno storico lo riabilita POVERI generali. Combattono combattono e invece di entrare nel mausoleo finiscono nel 1 vocabolario, vittime delle loro debolezze. Montgomery è diventato un soprabito; Cardigan, l'eroe di Balaklava, un pullover; Cambronne è meglio non dire, in pubblico, che cosa è diventato. Ma c'è qualcuno a cui è andata anche peggio: Jacques de Chabannes, signore di Lapalisse, il grande maresciallo di Francesco I. E non è tanto giusto. Il generale Montgomery, almeno, ha indossato per anni quell'orrendo cappottino che ci è stato imposto nel dopoguerra. Lord Cardigan, dimenticato nella carica dei seicento, contribuì effettivamente a lanciare quel golf con i bottoni che ancora oggi sostituisce tanto vantaggiosamente il gilet. E Pierre Jacques Etienne barone di Cambronne, quella brutta parola di cinque lettere deve averla davvero gridata nella piana di Waterloo, se le cronache ci raccontano che passò il resto della sua vita a tentare senza fortuna di smentirla, nei salotti di Parigi. Ma Lapalisse no, Lapalisse né in vita né soprattutto in morte fece nulla per giustificare la leggenda che lo ha trasformato nella marionetta più storpia del nostro lessico: eponimo della banalità, simbolo della tautologia, principe dell'ovvio, gran ciambellano dell'insulsaggine. Adesso, finalmente, è venuto chi lo riabilita: Dante Zanetti, professore di storia economica all'Università di Pavia, che da anni si occupa del grande vilipeso e ora pubblica dal Mulino i frutti più gustosi della sua ricerca. Onore al signor de Chabannes, finalmente, gloria a Monsieur de Lapalisse, un nome che sprigiona un senso nuovo, volontà militaresca, resistenza alla fatica, sprezzo del pericolo. Jacques II de Chabannes, come apprendiamo dall'aureo libro di Zanetti, fu difensore di fortezze, frantumatore di assedi, scorrazzò per mezza Euro- pa e quasi tutta l'Italia al seguito di Carlo VIII, poi di Luigi XII, infine di Francesco I, che gli affidavano sempre, gentili, la responsabilità delle avanguardie. Aveva ormai 55 anni, ma era sempre lui quello che mandavano all'assalto: anche a Pavia, il 24 febbraio 1535, dove finì abbattuto, nella battaglia più cruenta del secolo, sotto le picche dei Lanzichenecchi. La sua salma fu esposta nella chiesa di San Pietro in ciel d'oro (come Agostino, come Severino Boezio), i suoi la riscattarono e la portarono al castello avito, dove fu tumulata in un sarcofago di marmo. Ma ancora non si erano spenti gli echi della cerimonia funebre che già un piccolo, maligno errore di stampa dava inizio alla più perversa delle leggende. «Hélas! La Pali- ce est mort, / il est mort devant Pavie./ Hélas! S'il n'étoit pas mort / il feroit encore envie», cantavano i suoi soldati per onorarlo: «Ahimè, il signor di Lapalisse è morto: è morto davanti a Pavia / Ahimè!, se non fosse morto / farebbe ancora invidia». E certo che avrebbe fatto invidia, per quella soldatesca, che lo aveva visto eretto sul cavallo, scoppiante di vitalità, a menare giù la spada contro gli spagnoli. Sennonché, nell'antica scrittura, la f e la s si presentavano quasi nello stesso modo, distinte soltanto da un trattino; e proprio quel trattino fu dimenticato da un distratto amanuense, nel copiare il quarto verso: così il «farebbe ancora invidia» divenne «il seroit encore en vie»: se non fosse morto, sarebbe ancora in vita. Non ci voleva di più per scatenare la fantasia dei parodisti, l'estro dei più ribaldi cantastorie. Dietro la prima, vennero a cascata le altre strofe, una più insolente dell'altra, che il professor Zanetti è andato a pescare, in antichi fondi di biblioteca: «Era assai ben vestito / il suo abito in panno di Frisia / e quando era nudo / non aveva la camicia» «Era un gran buon cristiano / viveva in astinenza / e quando non diceva nulla / osservava il silenzio». Nel castello del Borbonese i famigli accendevano lampade sotto il marmo del maresciallo; ma per le osterie e i mercati correvano versi sempre più gaglioffi: «E' morto di venerdì / oltre il fiore dei suoi anni / se fosse morto di sabato / sarebbe vissuto di più». Finché sulla burla di Lapalisse mise le mani un poeta laureato, accademico di Francia, che all'inizio del '700 trasformò la leggenda in un'ode di 50 quartine. Si chiamava Bernard de la Monnaye, di lui si è dimenticato tutto, salvo quella sogghignante filastrocca: «Voleva nei suoi pasti / cibi squisiti e teneri / e faceva Martedì grasso / sempre alla vigilia delle Ceneri», «I camerieri si preoccupavano / di servirgli le polpette / e non dimenticavano le uova / soprattutto nelle omelette». Un distico, rimasto famoso, viene citato ancora oggi: «Et pour bien goùter le vin / jugeoit qu'il en falloit boire» (e per ben gustare il vino / sosteneva che bisognava berlo). Invano Luigi XV cercò di proibire quei versi ritenuti offensivi per la memoria di un valoroso soldato. Del signore di Chabannes non si ricordava più nessuno; il nome di Lapalisse era ormai entrato nel linguaggio di tutti. Destino non soltanto suo, da quei tristi tempi. La sua regina, Claudia, era stata trasformata in una prugna, la «reine Claude», quella susina grande e gialla, veramente regale, che ancora oggi, in Piemonte, si chiama «ran-a glòda». Il suo re venne celebrato per una frase mai detta dopo la battaglia («Tutto è perduto fuorché l'onore») e per una zuppa che forse non aveva mangiato, la stessa sera (ma che, sotto il nome di zuppa alla pavese, si continua a scodellare da cinque secoli). Lui giace là, nel paese che porta il suo nome, senza sapere quanto e soprattutto come oggi corra nel mondo. Ingiusto, forse, ma inevitabile, dopo la caduta di quel fraudolento trattino nella f. Anzi, lapalissiano. Giorgio Calcagno E finito nel vocabolario vittima di posteri burloni. Ma altri guerrieri come lui hanno avuto la stessa sorte Jacques II de Chabannes, noto come monsieur de la Palice, morto nel 1535 durante la battaglia di Pavia Sopra, Cambronne, che forse non pronunciò la celebre imprecazione. A fianco, Montgomery

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