Quando Mao disse «grazie» al terribile invasore della Cina

Quando Mao disse «grazie» al terribile invasore della Cina IL RE DEL CIELO E IL GRANDE TIMONIERE Quando Mao disse «grazie» al terribile invasore della Cina LA visita è stata voluta da Pechino, con grandi pressioni. Dopotutto, chi si sposta è il Tenno, «re del Cielo», da tremila anni direttamente legato agli Dei, mentre a Pechino il sovrano è stato sempre solo «figlio del Cielo», soggetto, come è capitato, al rovesciamento e al ritiro del «mandato del Cielo». Riconoscimento di legittimità, dunque, del regime, che verso il Giappone ha già motivi di gratitudine. Quando alla fine di settembre del '72 si ebbe la normalizzazione dei rapporti, nell'incontro con Mao il premier Tanaka cercò di esprimergli il rincrescimento per l'invasione. Si dice che Mao abbia ribattuto sarcastico: ««Non parliamone neanche. Dobbiamo ringraziarvi per l'aiuto che ci avete dato»». Diceva il vero. Senza volerlo, le armate di Hirohito diedero una mano a Mao e ai suoi guerriglieri, costringendo il capo nazionalista Ciang Khai Shek, che fino ad allora li aveva combattuti, ad allearsi con loro per respingere l'invasore. Nell'alleanza il potere nazionalista fu svuotato da quello comunista che proclamava la rinascita nazionale e il rinnovamento sociale. Il segreto dell'ascesa fu l'imperia- lismo nipponico. Al momento dell'invasione nel '37, i comunisti riparati a Yanan attraversavano momenti difficili. Le forze nazionaliste stavano riconquistando territori su cui avevano stabilito il controllo. Mentre i giapponesi calavano dalla Manciuria su Pechino e sulla Cina nord-orientale, nella città di Xian un signore della guerra, Zhang Xuelian, noto come «il giovane maresciallo», rapì e prese prigioniero Ciang Khai Shek, per imporgli l'alleanza con chiunque, anche i comunisti, contro l'invasore. Un episodio noto come «l'incidente di Xian», che ha segnato la Cina moderna. Il dittatore nazionalista restò prigioniero per diversi mesi, finché non cedette. Mao mandò allora a Xian il giovane Zhou Enlai, che negoziò i termini dell'accordo per la comune lotta ai giapponesi. Con ciò Mao Zedong e il suo movimento comunista ricevettero la legittimità politica fino ad allora loro negata. Il «bandito» scampato con la Lunga Marcia alla cattura e al taglio della testa, diventava leader riconosciuto di forze politiche e militari nella comune lotta contro l'invasore. Senza l'azione delle armate del Tenno, forse, Mao non sarebbe poi divenuto l'imperatore che è stato. E non a caso, finito il conflitto, quando Mao lanciò la guerra civile per la conquista del potere, Ciang Khai Shek fece arrestare il «giovane maresciallo» che nel '37 lo aveva imprigionato a Xian, e lo portò con sé anche nella fuga a Taiwan, dove lo mantenne agli arresti. Morto Ciang, il maresciallo ormai non più giovane è rimasto ancora in questo stato fino all'89, quando è stato liberato. Recentemente è stato fatto incontrare alla prima delegazione di giornalisti di Pechino andati in visita a Taiwan e nell'occasione ha dichiarato di voler venire a visitare la Cina popolare. La realtà storica dell'indiretto debito della Cina di Mao Zedong al Giappone di Hirohito fa riscontro alla leggenda popolare sulle origini del Giappone, indirettamente dovute a un sovrano cinese la cui figura era molto amata da Mao: Qinshihuangdi, primo unificatore del Paese nel Duecento avanti Cristo. Mao, ultimo riunificatore e novello imperatore, gli ha dedicato anche alcuni poemi. Secondo la leggenda quel sovrano mandò migliaia di candide vergini e baldi guerrieri nelle isole dell'Est, cioè l'arcipelago del Sol Levante, alla ricerca dell'elisir dell'immortalità. Non avendolo trovato, e terrorizzati dall'idea di dover affrontare l'imperatore senza aver compiuto la missione, fanciulle e giovinotti decisero di non tornare, dandosi sulle ignote isole a giochi d'acqua e d'amore, grazie ai quali ebbe origine il popolo giapponese. Tra i festeggiamenti per la visita, vi è questa sera nel maggior teatro di Pechino la rappresentazione di un balletto basato su questa leggenda, diretto a celebrare l'antica origine dell'amicizia tra i due popoli. Si mette apparentemente una pietra sopra un recente passato di sangue, culminato nel massacro di Nanchino, dove nell'agosto '37, secondo fonti cinesi, i giapponesi trucidarono 300 mila persone. Nel ricordo di quelle atrocità, anche dopo la normalizzazione dei rapporti del '72 l'imperatore Hirohito era rimasto persona non grata in Cina: un suo velato desiderio di venire in visita era stato regolarmente ignorato, mentre ora per avere Akihito sono stati i cinesi a far pressione su Tokyo. Da un massacro all'altro: l'imperatore giapponese, pur non essendo costituzionalmente neanche capo dello Stato, è comunque il più alto esponente delle sette grandi democrazie industrializzate a far visita a Pechino dalla repressione della Tienan-, men, restituendo con ciò onorabilità al regime; come le armate di suo padre indirettamente conferirono legittimità ai comunisti. Tutti parallelismi e specularità in un antagonismo ieri feroce, oggi latente, storicamente apertosi con le diverse posizioni nel secolo scorso davanti al colonialismo occidentale. Il Giappone cercò di modernizzarsi «uscendo dall'Asia»», adottando cioè modelli europei di modernizzazione. La Cina cercò di resistere, andando alla dissoluzione. Il Giappone divenne la potenza egemone, faro di attrazione per rivoluzionari come Sun Yat Sen, agitando un «pan-asiatismo» che si rivelò poi puro e semplice imperialismo del Sol Levante in opposizione a quello europeo. Nel più recente parallelismo, oggi, nelle innumeri fabbriche nipponiche in Cina, gli operai cominciano la giornata cantando, in uniforme, l'inno aziendale. Come appena ieri, in tutina blu, cantavano l'Oriente è rosso. Ma con risultati diversi. [f. m.l L'imperatore Hirohito e Mao Zedong L'invasione nipponica aiutò i comunisti a battere Ciang Khai Shek