«E' il nazista che ordinò la strage» Ora 22 fantasmi chiedono giustizia

«E' il nazista che ordinò la strage» Ora 22 fantasmi chiedono giustizia Individuato in Germania il sottotenente che volle il massacro in un casolare di Caiazzo «E' il nazista che ordinò la strage» Ora 22 fantasmi chiedono giustizia CA1AZZ0. Dopo mezzo secolo un fantasma si aggira di nuovo nelle vecchie masserie sperdute tra gli ulivi e i quercioli di Caiazzo, un paesino a Nord di Caserta. Qui molta gente aveva sperato invano di cancellarlo dalla memoria, ma lui è tornato, con tutto l'orrore dei crimini commessi dai nazisti durante l'ultima guerra mondiale. Ha le fattezze di un ometto basso e smilzo, con un paio di occhialini tondi che non riescono a nascondere un forte strabismo. Il suo nome è Wolfang Lehnigk Emden. Oggi ha settant'anni, ma i contadini più anziani hanno ancora impressa nella mente l'immagine di un giovanissimo sottotenente del ventinovesimo Panzer Grenadier Regiment, accusato di aver fatto massacrare, la sera del 13 ottobre 1943, ventidue civili inermi: quattro uomini, undici bambini di età compresa fra i tre e i sedici anni e sette donne, la più vecchia delle quali aveva 73 anni. Alcuni giorni fa i poliziotti tedeschi e un magistrato italiano hanno bussato alla porta di casa Emden a Ochtendung, vicino a Francoforte. Dovevano notificargli un ordine di custodia cautelare firmato dal giudice Raffaele Sapienza. Ma Emden - poi rilasciato - è stato arrestato su decisione del procuratore di Coblenza. Magistrati e polizia italiani sono certi che il sottotenente Wolfang Lehnigk Emden agì per pura ferocia. Uccise senza alcuna giustificazione. Quella sera del '43 l'inferno si era abbattuto su Caiazzo, stretta in una morsa di fuoco, tra gli americani che con gli inglesi avanzavano da Sud, vicini al Volturno, e i tedeschi pronti a tutto pur di tenere le loro posizioni. Nel mezzo c'erano solo contadini, la cui unica colpa era di essere italiani. «Le truppe di Hitler ci odiavano» spiega Giuseppe Capobianco, un vecchio militante del pei che ha trascorso anni nella ricerca della verità sulla strage. Il paese era disabitato già da alcuni giorni: la gente aveva trovato rifugio nelle masserie disseminate nei boschi. Anche le famiglie di Francesco D'Agostino, Nicola Perrone e Orsola Massodoro avevano cercato scampo nella campagna ai piedi del Monte Carmignano. Erano ospiti di Raffaela Albanese, una vedova di 47 anni che viveva in un casolare con 5 figli. Credevano di essere al sicuro, attendevano che il diluvio di bombe e le razzie cessassero con l'arrivo degli americani, invece quelle quattro mura di pietra nuda si sarebbero trasformate presto in una tomba. I 22 corpi furono trovati da Raffaele Perrone, fratello di Nicola, ucciso dai nazisti con la moglie Anna Di Sorbo e i quattro figli: Giuseppe, 12 anni, Antonietta, di 9, Margherita, di 6 e Elena, di 3. Oggi Raffaele è un arzillo e lucido vecchietto di 83 anni. Coltiva ancora la terra, ma da quel giorno non si è mai accostato alla masseria del Monte Carmignano. «Non ce la faccio, mi manca il coraggio», ripete ogni tanto, abbassando lo sguardo. Per lui è come se il tempo di come se il tempo di fosse fermato la mattina del 14 ottobre del '43, quando si trovò davanti agli occhi uno spettacolo che gli sarebbe rimasto impresso nella mente come un marchio a fuoco sulla pelle. «L'avevo detto, a Nicola, che la masseria Albanese era pericolosa - racconta -. Ma lui non volle ascoltarmi. Io abitavo in un altro casolare, ospite di mio cognato, Salvatore D'Agostino. La mattina del 14, all'alba, uscii con Salvatore per controllare il bestiame chiuso in una stalla poco distante. Per ar¬ rivarci dovevamo passare davanti alla casa sulla collina, quella requisita dai tedeschi. Quando ci arrivammo vidi una scarpa da uomo e una scia di sangue. Ci risiamo, dissi, quelli hanno preso e ucciso altre bestie. Corremmo alla stalla, ma gli animali erano tutti lì. Tornammo indietro, e scoprimmo i primi sette corpi, un groviglio di gambe e, di braccia in una buca piena di sangue. Fu allora che vidi Nicola, sfigurato dai colpi di mitraglia. Era ancora giovane, aveva 37 anni. Poi riconobbi anche gli altri: nella fossa c'erano mia cognata, Anna Di Sorbo, Raffaele e Vito Massodoro e la loro madre, Orsola, una povera vecchia di 73 anni. Ultimo era un ragazzo: Antonio Palumbo, di 14 anni. Madonna Santa, urlai, che hanno fatto? Mio cognato mi tirò per un braccio: andiamo a cercare gli altri, disse, facciamo presto. Corremmo lungo il pendio della collina, fino alla masseria degli Albanese. Entrammo nel fienile, e allora vedemmo: erano tutti morti, donne e bambini, semicoperti dalla paglia, sgozzati come animali da macello, con le teste sfondate a colpi di bastone, tagliati in due dalle raffiche di mitra. Le femmine erano state impalate... Sì, avevano delle mazze infilate lì, tra le gambe». Tra i morti c'era anche Elena Palumbo, tre anni, la più giovane delle vittime. Il suo corpo era rannicchiato in un cesto, mutilato. La gamba destra fu trovata solo quindici giorni dopo il massacro tra i cespugli, ad alcune decine di metri dalla masseria. Mentre Nicola Perrone piangeva i suoi morti a Monte Carmignano, gli americani entrarono finalmente a Caiazzo. Furono informati della strage da un loro connazionale, William Stoneman, corrispondente di guerra del Chicago Daily News, che in questa storia ha un ruolo da protagonista: fu lui che si prodigò affinché le 22 vittime dell'eccidio fossero sepolte degnamente, che chiese al filosofo Benedetto Croce un'epigrafe da incidere sulla lapide, ma che soprattutto si battè fino alla sua morte, avvenuta nell'83, perché fosse fatta giustizia della strage. La sua eredità fu raccolta da Giuseppe Agnone, un italo-americano emigrato nel '56 nel New Jersey. Nell'88, dopo anni di ricerche negli archivi Usa, ha consegnato un dossier con documenti un tempo «top secret» alla magistratura di Santa Maria Capua Vetere, che ha emesso un ordine di custodia cautelare contro l'ex sottufficiale. Il nome di Wolfang Lehnigk Emden saltò fuori pochissimi giorni dopo la strage. Catturato nei pressi di Teano con altri 16 commilitoni, fu smascherato grazie alle testimonianze dei suoi stessi soldati: Edward Sikorski, Martin Richter, Edmund Leila, Wilhelm May. Il 22 novembre, il colonnello M.F. Grant inviò un rapporto al quartier generale della Quinta Armata Usa in cui ricostruì la dinamica dell'eccidio. Emden confessò solo in parte. «Notai che dalla masseria ai piedi della collina provenivano luci intermittenti, forse dirette al nemico - si giustificò -. Informai il mio superiore, tenente Raschke, che mi disse di eliminare tutti gli abitanti del casolare. Ho dovuto eseguire l'ordine, anche se personalmente ho sparato un solo colpo». Ma Emden fu smentito sia dai fatti che dagli altri testimoni: il suo superiore non avrebbe mai potuto imporre un massacro, perchè la sera del 13 ottobre '43 si trovava negli uffici del comando militare, in attesa di direttive per la ritirata. E le presunte «luci intermittenti» non avrebbero mai potuto essere viste dal nemico, perché fra le truppe americane e la masseria degli Albanese c'era la collina sulla quale erano attestati i tedeschi. E poi i testimoni furono espliciti. Accompagnato da tre volontari, i sergenti Hans Knast e Kurt Schuster e un militare non identificato, il sottotenente raggiunse la fattoria e, dopo aver tolto le mostrine dalla propria divisa, si spacciò per un soldato americano e chiese ai contadini dove fossero i tedeschi. Il trucco riuscì: Emden si fece accompagnare da quattro uomini, due donne e un ragazzo di 14 anni alla masseria sulla collina, e li fece uccidere. Poi tornò con i suoi alla casa degli Albanese, e completò il massacro. Emden, però, non ha pagato il suo conto con la giustizia. Fuggì il 13 gennaio del '44 da un campo di concentramento ad Algeri dopo aver detto a un altro prigioniero: «Non sono per nulla dispiaciuto di aver fatto ciò che ho fatto: se avessi saputo di essere rinchiuso per questo motivo ne avrei uccisi ancora di più». Riacciuffato, scappò per la seconda volta, ma alla fine decise di consegnarsi agli inglesi. La sua prigionia non durò molto: il 29 agosto del '43 lasciò definitivemente l'Algeria, rimpatriato in Germania per non meglio precisati «motivi di salute». Da allora, sui sottotenente Wolfang Lehnigk Emden e sull'eccidio di Caiazzo è calato un inspiegabile silenzio lungo mezzo secolo. • Fulvio Milone I testimoni «Erano contadini che sfuggivano alla guerra Tra i cadaveri mutilati ho visto una bimba di 3 anni e una donna di 73» A fianco le case sul Carmignano; a destra Angela e Maria Albanese con Vito. Sotto la famiglia Albanese e Antonio e Orsola D'Agostino