Texas, rodeo da brivido per il cowboy dilettante di Gaetano Scardocchia

Texas, rodeo da brivido per il cowboy dilettante CASA BIANCA CONTO ALLA ROVESCIA Texas, rodeo da brivido per il cowboy dilettante HOUSTON DAL NOSTRO INVIATO Quando arriva il Presidente? «La prossima settimana - risponde giulivo Mr. Lividini, direttore dell'albergo "Houstonian" -. Viene spesso in questi ultimi tempi. Lo scriva pure: da noi egli è sempre il benvenuto». Mr. Lividini, italo-americano di terza generazione, è per così dire il padrone di casa di George Bush. Allo «Houstonian» - un albergo stile «country club», immerso nel verde, ai margini del lussureggiante Memorisi Park, tra campi da tennis e sentieri per il jogging - il Presidente ha il suóidomicilio legale, in una suite di tre stanze al secondo piano dell'edificio. Paga 800 dollari per notte quando vi risiede. Per il resto del tempo, l'appartamento può essere affittato ad altri ospiti, «molto ben selezionati»: non è per mancanza di rispetto verso il titolare della Casa Bianca - spiega lo zelante Lividini - ma gli affari sono affari e purtroppo l'albergo ha i bilanci in rosso ed ha chiesto la procedura fallimentare. La sola, autentica casa di Bush è in verità la grande villa di famiglia sulla costa atlantica del Maine. E' la casa delle vacanze, della pesca, del golf. Quello di Houston è un indirizzo di convenienza. «Un domicilio fiscale per pagare meno tasse» dicono le malelinguc. Ma sbagliano. Bush finge di abitare nel Texas per ragioni politiche: qui da giovane ha fatto fortuna nell'industria petrolifera, qui è stato eletto deputato, qui conta amici e finanziatori generosi, e qui tra due settimane si giocherà la sua carriera politica. Come texano adottivo, il Presidente non è molto convincente. Anche quando indossa gli sti- vali e il cappello western e sale a cavallo per la Live-Stock Parade (la fiera del bestiame, grande festa folkloristica), la sua parlata anemica ed il sorriso frigido rivelano che sotto il camuffamento texano si nasconde un patrizio yankee del New England. E' vero che negli ultimi tempi viene più spesso a Houston: otto volte in quattro mesi. Ha le sue buone ragioni. Nel Texas la battaglia elettorale si sta rivelando assai più difficile del previsto. Non è un buon segno. Vediamo perché. Se prendiamo i tre Stati più popolosi dell'America (nell'ordine, California, New York e Texas), scopriamo che Clinton ha la vittoria quasi sicura nei primi due - che insieme portano al vincitore 87 «grandi elettori», ossia un terzo dei 270 che bastano per diventare Presidente - ma è tutt'altro che scontato il successo di Bush nel Texas, che nomina 32 «grandi elettori». Il sondaggio più recente indica nel Texas una condizione di parità: 35% di consensi per il Presidente, 35% per il suo rivale democratico, 17% per Ross Perot. Questo significa che mentre Clinton può vincere le elezioni il 3 novembre anche se viene sconfitto in Texas, Bush deve assolutamente conquistare il suo Stato adottivo per poter sperare di raccogliere, su scala nazionale, un minimo di 270 elettori. Il portavoce di Bush a Houston, Mark Sanders, mi ha detto che la partita decisiva si gioca qui: «Sappiamo in quali Stati siamo deboli e in quali siamo forti. Non riesco ad immaginare alcuno scenario di vittoria per Bush se non ci assicuriamo i 32 voti elettorali dei Texas. Non è una questione di prestigio. E' un dato di pura aritmetica elettorale: se perdiamo qui, è finita». Questo spiega i frenetici viaggi di Bush e le ingenti risorse che egli ha investito nella «campaign» texana. Negli ultimi due mesi, solo per la pubblicità televisiva, Bush ha speso in Texas due milioni di dollari contro i 300 mila dollari di Clinton. Considerato che a metà agosto, prima della convention repubblicana, Bush in Texas era distaccato di 17 punti, la parità ora segnalata dai sondaggi rivela che il Presidente ha rimontato lo svantaggio e, se mantiene lo slancio, può battere Clinton nelle ultime due settimane. Mark Sanders osserva che, contrariamente alla California, qui Bush resta il candidato prediletto degli imprenditori. Nessuna defezione tra i ricchi di Dallas e di Houston, salvo quella di Oscar Wyatt, un petroliere eccentrico «che finge di essere di sinistra» e perciò si è schierato con Clinton. Tutti i maggiori giornali texani appoggiano più o meno apertamente Bush, con l'eccezione dell'Austin American Statesman, il quotidiano della capitale texana, che è an¬ che la città più liberal. «Credo che alla fine i texani faranno una scelta di carattere, come è nella nostra tradizione. Certo, Bush non è molto popolare in questo momento. Ma, quanto a carattere, ne ha da vendere». Rimane un dubbio: perché la gara è diventata tanto incerta in uno Stato che sembrava tranquillo appannaggio di Bush? La spiegazione di Mark Sanders è che la depressione economica si fa sentire anche in Texas. In un anno 12 mila posti di lavoro sono andati perduti nell'industria petrolifera. L'indice di disoccupazione è ora più alto di quello nazionale. Gli orgogliosi texani si sentono minacciati come tutti gli altri americani. Jim Simmon, giornalista politico dello «Houston Chronicle», mi spiega che, quando l'economia perde colpi, la gente se la prende col Presidente: «Giusta o sbagliata che sia, la percezione diffusa è che egli non ha fatto quel che doveva fare, anche se nessuno sa dire che cosa avrebbe dovuto fare. Diciamo che Bush è sfortunato: gli sta andan¬ do tutto male nel momento peggiore, prima dello elezioni». Oltre che sfortunato, Bush è senza dubbio imprudente. O almeno lo è stato quando ha consentito all'estrema destra religiosa di impadronirsi della convention repubblicana e di farne il pulpito per una crociata contro l'aborto, contro l'omosessualità e contro tutti i veri o presunti peccati di questo mondo. Abbiamo visto che una simile strategia si è rivelata suicida in uno Stato liberal come la California. Ma a quanto pare essa non funziona neppure nel Texas. Il «Great State», come ama definirsi, non è più il regno dei «rednecks», sciovinisti, aggressivi e intolleranti. I tipi alla John Wayne non abitano più qui. O comunque si fanno vedere meno in giro. Diciamo che non c'è più un vasto pubblico disposto ad ascoltare i predicatori con gli occhi esaltati che chiamano Dio «the big Amigo», che considerano l'Aids un castigo per «pervertiti e criminali» e che giudicano un «faggot» (frocio) o un «commie» (comunista) chi ha idee di¬ verse dalle loro. La battaglia contro l'aborto qui assume toni truculenti. Diciotto candidati repubblicani, capeggiati da un certo Stephen Hopkins (detto «Thunder from the Right», ossia tuono da destra), hanno finanziato uno spot televisivo nel quale si vedono poltiglie sanguinolente di presunti feti raccolti nei cassoni dei rifiuti di una clinica ostetrica di Houston. «Gli americani - proclama Hopkins - devono vedere gli orrori dell'aborto». Ma gli americani, anche quelli di Houston e di Dallas, cambiano canale o protestano con le stazioni televisive o addirittura chiedono l'intervento censorio della locale commissione di vigilanza, sostenendo che quelle immagini sono ripugnanti e spaventano i bambini. E comunque la virulenza del fanatismo religioso gioca contro Bush, accusato di aver ceduto le redini del partito a gruppi estremisti estranei alla tradizione repubblicana. Il Presidente ha cercato di riprendere le distanze, ma il danno ormai era fatto. L'e- lettore repubblicano moderato potrebbe schierarsi con Clinton, insieme a molte donne e a molti giovani. «La grande novità di questa campagna elettorale - mi dice Billie Carr, un'anziana e battagliera dirigente del partito democratico - è il gran numero di giovani che lavorano per noi come volontari. Era dai tempi di Kennedy e di McGovern che non vedevo tanti giovani. I sondaggi ci dicono che il 46% dei nuovi elettori voterà per Clinton e solo il 26% per Bush». La signora Carr milita da quarant'anni nelle file democratiche. Appartiene a un filone femminista molto pratico, molto concreto, che qui in Texas ha salde radici. Del resto, il governatore dello Stato è una donna, la democratica Ann Richards. Queste vigorose signore organizzano cortei di elettori democratici che si recano alle urne scandendo slogan ed innalzando cartelli anti-Bush. Già, perché qui in Texas le elezioni sono in pieno svolgimento, dal 14 ottobre, grazie all'istituto del cosiddetto «early vote», il voto anticipato. Ai texani è consentito di votare durante le ultime due settimane di ottobre, così da evitare affollamenti il 3 novembre. Esistono perfino «seggi elettorali mobili», ossia camioncini attrezzati con schede e urne, che fanno la spola tra chiese e supermercati. Le urne verranno però aperte solo la sera del 3 novembre. La legge (la più moderna d'America) è nuova ed i democratici sperano che spinga alle urne più elettori del solito, soprattutto neri ed ispano-americani, una circostanza che favorirebbe più Clinton che Bush. Gioca infine contro il Presidente, qui più che altrove, la candidatura di Ross Perot, un texano autentico che dovrebbe ottenere oltre il 10% dei voti. Secondo il professor Richard Murray, dell'Università di Houston, il 50% dei voti di Perot viene dalle file repubblicane, il 30% da quelle democratiche ed il 20% da elettori che altrimenti avrebbero disertato le urne. Morale: Perot sottrae consensi più a Bush che a Clinton, almeno nel Texas. Il Presidente resta il favorito, ma nessuno osa escludere un risultato clamoroso. Il ritornello è il solito: «Bush è sfortunato». Su questo punto, tutti nel Texas hanno una storia da raccontare. La più bella è quella della giornalista Molly Ivins che tempo fa seguì il Presidente nel viaggio attraverso una contea rurale dell'Est. Tutto andò male. Un infortunio dopo l'altro. Ogni volta che prendeva in braccio un bambino, quello cominciava a piangere. Quando provava a mungere una vacca, non riusciva a spremere una goccia di latte. Alla fine, tra la costernazione dei presenti, fu inondato da uno scroscio di pipì. «Il Presidente si era messo in una posizione sbagliata - dice la Ivins -. Non essendo un vero texano, ignorava che le vacche sono i soli quadrupedi che pisciano all'indietro». Gaetano Scardocchia Il Presidente dato alla pari con il rivale nel «suo» Stato Il democratico Bill Clinton è saldamente in testa a tutti i sondaggi A destra il candidato indipendente Ross Perot [FOTO AP]