«L'ho ucciso perché urlava troppo» di Pierangelo Sapegno

«L'ho ucciso perché urlava troppo» Milano, era un giovane di periferia tutto casa e lavoro, in trappola grazie al «numero verde» «L'ho ucciso perché urlava troppo» // mostro di Foligno confessa: sono stato costretto MILANO DAL NOSTRO INVIATO Questa faccia così banale, la giacca corta e larga, il passo dinoccolato come uno che se ne esce dalla discoteca. L'hanno chiamato mostro, quando non aveva un volto e rivendicava un delitto terribile, quello di Simone Allegretti, creatura di 4 anni seviziata e uccisa in un prato di Foligno. Adesso, a guardarlo mentre esce dall'ufficio della Questura di Milano, e avanza incerto nel corridoio aspettando i due poliziotti che lo affiancano, a guardarlo in faccia, mentre si ferma come per chiedere che cosa deve fare aprendo la porta del cortile, adesso ci riesce più difficile chiamarlo ancora così. Questo è un mostro spaventosamente nascosto nella nostra quotidianità, in una discoteca qualsiasi, in un palazzo di periferia di una qualunque città italiana, in una famiglia come tante, compagno di scuola, di lavoro, persino vicino di banco in una navata della Chiesa, durante la Messa. Un naso lungo, il ciuffo di capelli che scende sugli occhi, quasi senza espressione, due macchie nel volto scavato, il pomo d'adamo un po' sporgente. Ecco Stefano Spilotros, 22 anni, agente immobiliare, volontario nella parrocchia di San Giovanni a Rodano, organizzatore di giochi por piccini, figlio di Chiara Ingrosso, operaia nell'hinterland milanese e fino a un anno fa baby sitt.er a tempo pieno. Incredibile. Stefano Spilotros ha passato la sua vita in mezzo ai bambini. Ha ucciso Simone Allegretti, stringendogli la bocca con una mano, soffocandolo così, semplicemente «perché», ha detto, «non sopporto sentire i bambini urlare». Ha lasciato un biglietto alla polizia sfidandola, «non mi troverete mai», e nello stesso tempo chiedendo soccorso per sé e per la sua malattia: «Aiuto, aiutatemi». Ha chiamato il numero verde di Foligno, senza spavalderia, con voce dimessa, esaltato dalla sua impresa e schiacciato dal senso di colpa: «Sono io quello che cercate». Ha dato appuntamento al suo misterioso confessore, dal centralino di Foligno, quel Mario che gli rispondeva trattandolo come un amico, e l'ha guardato negli occhi per un attimo eterno, dai vetri sporchi di un bar, prima di scappare per l'ultima volta. E ha confessato, alla fine, senza piangere mai, ma arrestando ogni tanto il suo fiume di parole, solo per trattenere l'emozione, per nascondere il tremolìo della voce. Gradasso e vile, per metà un uomo finto: l'assassino di Foligno è crollato un po' per vanteria, ma molto perché attratto irrimediabilmente da una voce calma («mi era simpatico» ha detto, «mi incuriosiva»), che lo intratteneva dall'altro capo della linea, sul telefono verde della polizia. Come in un film, questa volta ha vinto la giustizia. Per questo, anche per tutto questo, il questore Achille Serra, quando si sono spenti i riflettori, commenta a mezza bocca che a lui «fa una gran pena». Dev'essere quella sorta di complicità che si crea tra il cacciatore e la preda, quando la partita è finita. O forse sarà quel senso di scoramento che ti prende a scoprire che il mostro visto dal vero è troppo uguale alla normalità. Quasi banale. Impossibile da trovare se è lui che non si rivela. E in fondo è stata semplicemente questa la traccia, l'idea, che ha ispirato il gruppo di lavoro coordinato da Serra. «E' nato così il numero verde», spiega ai giornalisti. Una linea telefonica per convincere l'assassino di Foligno anche solo a far ascoltare la sua voce. Il contatto è arrivato, martedì 13 ottobre, sul far della sera. «Sono io la persona che cercate». C'è Mario al telefono, un ispettore laureato in psicologia, assistente sociale fino a poco tempo fa, prima di entrare in Polizia. «Io sono Mario. Tu come ti chiami?», gli dice. «Non fare il furbo», gli risponde Stefano. Ma l'ispettore riesce a conquistare la sua fiducia, lo fa parlare, lo convince a restare in linea per quasi 5 minuti. Non basta alla Sip per capire da dove Stefano stia chiamando, per ubicare il posto esatto; ma è sufficiente per affermare che quel giovane era al Nord. Le chiamate da quel momento si susseguono e la Sip può lavorare restringendo il campo di indagine. Sarà più facile, così, ar¬ rivare a capire poco per volta che Stefano si fa vivo dalla Lombardia, e poi dalla zona di Gorgonzola, un'area fuori Milano, vasta 30 chilometri. Sono dodici le telefonate, in tutto. Le ultime da Melzo e da Rodano, il paese di villette a schiera affondate nella nebbia, dove Stefano vive con la mamma, il patrigno e due sorelle. Mario riesce a combinare un appuntamento. E ci riesce già giovedì, appena due giorni dopo la prima chiamata. «Mi dici tu dove. Domani sera, ti va bene?», abbozza Mario. E lui: «E chi mi garantisce che verrai da solo?» «Te lo garantisco io. E poi, dai, sei mica un pivello. Se ti accorgi che non sono da solo te ne vai, no? Vedrai che sarò da solo». Venerdì è il giorno dell'appuntamento. In un bar di Rodano, a Millepini, al «Centro sociale comunale». C'è una stradi- na che passa in mezzo alle villette con i giardini curati e i prati all'inglese, le utilitarie parcheggiate sotto i salici, e il bar sta in una piazzetta. Mario arriva e si siede in un angolo, vicino alla grande vetrata. Non ordina niente, e aspetta. Non entra nessuno, ma gli agenti nascosti fuori, vedono una Peugeot, bianca 504 che continua a girare nella piazza, che va e viene per le viuzze attorno. Poi si ferma, un ragazzo scende, va davanti alla vetrata e lancia un lungo sguardo dentro. Per la prima volta, le due voci si vedono in volto, e non c'è bisogno di parole: Stefano e Mario si riconoscono subito. Di fronte, c'è una cabina telefonica. Spilotros entra, chiama e poi riattacca. Un altro giro in macchina e di nuovo ritorna, davanti alla cabina. Dopo pochi secondi il barista si sporge dal bancone: «C'è uno che si chiama Mario qui?» j Lui si alza e va al telefono. Riecco la voce, quella voce: «Te ne puoi andare, non vengo». Non lo lascia rispondere, riattacca subito. E se ne va. Il giorno dopo, sabato, Stefano chiama ancora due volte al telefono verde di Foligno. Una, dalla Generalcasa, l'azienda dove lavora, a Melzo, l'altra da Rodano. Adesso sembra più aggressivo, lascia a Mario due prove per dimostrare che è lui l'assassino di Simone. «Il suo orologio l'ho buttato in un tombino davanti a un negozio di Foligno», dice. E poi spiega che Simone aveva una ferita sul corpo, dettaglio che non era mai uscito sui giornali. Fa un'altra telefonata, da Melzo, al «Giorno»: «Sono il mostro di Foligno. Per colpa di Mario ammazzerò un altro bambino, martedì». E questa telefonata convince gli agenti che è tempo di agire. Sabato sera alle otto, vicino a casa sua, lo bloccano fingendo un incidente stradale. «Siamo della polizia», gli dicono. «Ci serve come testimone». Stefano sbianca. Ha capito tutto. E negli uffici della questura si arrende subito. Racconta che domenica 4 ottobre era andato a Foligno per trovare un amico. Ma aveva incontrato Simone e l'aveva invitato a fare una passeggiata. Nella campagna. Non l'aveva violentato. «Atti di libidine», riferisce il linguaggio terribile degli investigatori. Poi l'aveva soffocato, quando lui s'era messo a urlare e piangere. «Non volevo», ripete commuovendosi appena. Adesso è finita. Se ne esce, con passo dinoccolato e la Gazzetta dello Sport in mano. Prima di salire sulla macchina il poliziotto gli sussurra «copriti la faccia». E lui esegue, e si porta stancamente il giornale sul volto. Pierangelo Sapegno Il blitz della polizia è scattato quando Stefano ha fissato un appuntamento nel bar del suo paese all'ispettore che lo aveva ascoltato al telefono * Stefano Spilotros, 22 anni, agente immobiliare: ha confessato di aver ucciso il piccolo Simone Allegretti

Persone citate: Achille Serra, Serra, Simone Allegretti, Spilotros, Stefano Spilotros