Semo Romani, siamo Ebrei

Semo Romani, siamo Ebrei Nell'opera di Berliner la dura storia della più antica comunità Semo Romani, siamo Ebrei Dall'Impero ai Papi, sempre lotta Di ALLA buia notte in cui gli Ebrei piansero la morte del benefattore Giulio Cesare al «memorabile» _l mattino in cui salutarono, davanti alla breccia di Porta Pia, la fine dell'oppressione pontificia: «La storia degli Ebrei di Roma è la storia di quella più antica comunità ebraica d'Europa che, sopravvissuta alla dominazione romana e alle migrazioni, superati il Medioevo, l'Inquisizione e il Papato, ha affermato la propria esistenza passando attraverso il fuoco e l'acqua». Abraham Berliner presentava così, nel 1893, la sua Storia degli Ebrei di Roma, che a giorni Rusconi pubblicherà per la prima volta in Italia. L'autore, nato in Prussia nel 1833 e morto nel 1915, ha dedicato tutta la vita a studiare la storia e la letteratura del suo popolo. La lunga lotta degli Ebrei di Roma s'iniziò duemila anni fa, nel II secolo a. C. I Romani trattarono quasi sempre gli Ebrei con notevole rispetto: Pompeo, quando in un giorno d'autunno del 63 a. C. conquistò Gerusalemme, penetrò nel Santo dei Santi, «si inchinò rispettosamente» e non toccò i tesori del Tempio. Quando Cesare fu ucciso, nel silenzio della notte non lo pianse solo «la deserta città di Gerusalemme»: a Roma, «nell'immenso lutto pubblico, una moltitudine di stranieri, in particolare i Giudei, sparsero i loro lamenti davanti al rogo, tornando sul posto per molte notti di seguito». Nel primo secolo dell'Impero, a Roma c'erano 40-50 mila Ebrei, che vivevano relativamente in pace, organizzati in 13 comunità, fra Trastevere, la Suburra e Porta Capena. Persino «il primo avvocato dell'Urbe», Cicerone, temeva la loro influenza: difendendo Lucio Valerio Fiacco dall'accusa di aver rubato loro del denaro, dice di parlare «con voce sommessa» per farsi udire solo dai giurati ed evitare la folla «affiatata e influente» che assiste alla requisitoria. Certo, nel 70 d. C. i figli di Israele non furono felici di vedere i fratelli in catene seguire il trionfo di Tito, l'imperatore che distrusse il Tempio di Gerusalemme e piegò l'orgoglio nazionale tramutando l'obolo di mezzo siclo al Tempio in ima tassa a Giove capitolino. Ma qualcuno tra loro cercò di.adattarsi senza troppi scrupoli: Giuseppe Flavio, portato dinanzi al vincitore come prigioniero di guerra, gli predisse un glorioso futuro. Agli ultimi rivoltosi, appostati sulla terza e ultima cinta di mura, dicono avesse gridato: «La fortuna che finora era di tutte le altre genti è adesso passata ai romani, e Dio, che toglie il dominio a un popolo per concederlo a un altro, ora è in Italia. Voi resistete non soltanto ai Romani, ma a Dio». Gli Ebrei non dovettero sorridere troppo nemmeno alle frecciate di Seneca, cui fa eco Giovenale. Prendendo di mira il riposo sabbatico, il filosofo li considera «gente che col pretesto della religione perde nell'ozio la settima parte della vita». Ma sostanzialmente la comunità mantenne molti privilegi e i suoi membri continuarono a esercitale le loro attività non solo di commercian- II papa Pio IX ti, ma anche di attori, pittori, poeti, cantanti. La situazione cambiò con l'affermarsi del Cristianesimo, anche se, specie nei primi secoli, gli Ebrei di Roma godettero spesso di condizioni favorevoli. Sotto il regno di Teodorico, re degli Ostrogoti (V-VI secolo) furono trattati con indulgenza. I rapporti «civili e amichevoli» con i cristiani dipendevano dagli atteggiamenti dei singoli pontefici. Gregorio Magno, ad esempio, li proteggeva e Tommaso d'Aquino scrisse che: «Gli Ebrei sono da considerarsi testimoni viventi della vera fede cristiana». Le prime violente persecuzioni antiebraiche si abbatterono nel XII secolo in Germania e Francia, ma anche in quel periodo la comunità romana rimase un'isola. Le leggi persecutorie emanate dalla Chiesa venivano applicate ovunque, tranne che a Roma. Gli anni fra il 1250 e il 1350 furono relativamente tranquilli, fatta eccezione per i torbidi del 1321, quando la furia «del popolaccio» costrinse gli Ebrei a mandare una ambasceria ad Avignone, per chiedere aiuto al Papa. Agli inizi del Cinquecento la popolazione ebraica di Roma era ancora cresciuta e poteva esibire il suo patriottismo di campanile: ognuno, scrive Berliner, «anche il più modesto, si fregia dell'appellativo "Ish Romi", "Romano di Roma"». La stessa fierezza di una celebre, più antica affermazione: «Civis Romanus sum», «Sono cittadino romano». Nel 1553 i prifì mi segni della . burrasca immi¬ nente: il Sant'Uf- fizio fa confiscare tutti i libri talmudici che riesce a trovare nelle case, e il 9 settembre, giorno del Compleanno ebraico, li fa bruciare in Campo dei Fiori, «proprio là dove 47 anni dopo sarebbe stato approntato il rogo per Giordano Bruno». Nel 1555 la tempesta: sulla cattedra di Pietro sale il grande inquisitore Carafa, con il nome di Paolo IV. «Un'onta per il papato, un terrore per l'umanità! - scrive Berliner -. Quello che egli fece nei quattro anni del suo governo, col pretesto della gloria della sua Chiesa, costituisce una delle pagine più nere della storia». Paolo IV lascia agli ebrei solo «la libertà di vivere»: la sua «bolla» (Cum nimis absurdum) dà il via al «terrore», contiene «tutto quanto occorre per annientare con la malizia e la sopraffazione la vita sia materiale che spirituale, sia l'anima che il corpo di migliaia di persone». I figli di Israele dovranno vivere isolati dai cristiani, in un quartiere circondato da una muraglia con una sola entrata e una sola uscita. Gli uomini dovranno indossare un copricapo giallo e le donne un quadrato di stoffa dello stesso colore. Molti, ricorda Berliner, per attenuare l'effetto di questi segni di riconoscimento preferirono vestirsi completamente di giallo Gli ebrei non potevano giocare mangiare o fare i bagni con i cristiani. Potevano commerciare solo in anticaglie. Le vessazioni continuarono, tranne qualche parentesi felice, anche nel '600 e '700: tasse, bai zelli e persecuzioni di ogni gene re gettarono in miseria la comunità. I Papi, scrive Berliner, non approvavano di certo tali comportamenti disumani, ma «erano diventati impotenti di fronte a un'Inquisizione che alzava il suo braccio di ferro per abbattere senza pietà tutto quanto contrastava con la sua fede». Le persecuzioni culminarono, nel 1775, nell'«Editto sopra gli Ebrei» di Pio VI, che voleva così ripristinare pienamente le angherie di Paolo rV. Nell'Ottocento l'autore intravede «il battito d'ali di tempi nuovi»: a suon di cannonate i francesi cacciano il Papa, ed «alleggeriscono il pesante giogo sotto il quale gli Ebrei ebbero a gemere». Si fa strada l'idea che non debbano più vivere segregati e finalmente, nell'aprile del 1848, Pio IX ordina che vengano abbattute le mura del ghetto. Nel 1870 Berliner può finalmente salutare le truppe italiane a Porta Pia e la fine del potere temporale del Papa. Il mattino di quel «memorabile» 20 settembre gli Ebrei di Roma, tramite il generale Cadorna, rendono a Vittorio Emanuele n 1'«omaggio della loro infinita riconoscenza di Italiani, Romani e di Israeliti»: «Noi pronunziamo per l'ultima volta il nome israelita... Sotto lo scettro di Vostra Maestà noi d'ora innanzi fuori del nostro Tempio ci rammenteremo unicamente che dobbiamo essere e che null'altro saremo che Italiani e Romani». Cario Grande A sinistra il portico d'Ottavia, a Roma, nella zona del ghetto. L'insediamento ebraico più antico si trovava a Trastevere L'orgoglio dei figli d'Israele e ipregiudizi della plebaglia romana. Rispettati da Cesare e Augusto «liberati» nell'Ottocento da Pio IX e dalla breccia di Porta Pia ^ | A fianco, | il generale Raffaele Cadorna. In alto, la breccia di Porta Pia fì . papa Pio IX