Cari ARABI, cari EBREI, ecco la lingua della PACE

Cari ARABI, cari EBREI, ecco la lingua della PACE Nella scuola di Shulamith Katznelson, l'israeliana candidata al Nobel: dallo scambio delle culture alla distensione Cari ARABI, cari EBREI, ecco la lingua della PACE PTEL AVIV EPERONI rossi al sugo e aringhe: sono le sette del mattino e Shulamith Ka 1 tznelson che (dice lei) non sa la sua età, ma dalle tante avventure che racconta si direbbe sui settantanni, mostra cosa può essere la voracità di una santa. E' tutta una vita prepotente e profetica che arde dentro l'idea di ricomporre con l'insegnamento delle lingue l'impossibile torre di Babele del Medio Oriente, di Israele, degli arabi e degli ebrei. Piccola e tozza, l'incedere regale, gli occhi terribili e dolci, i capelli stopposi e il naso grande degli est-europei fondatori della patria sionista, Katznelson è candidata al Premio Nobel per la pace che verrà assegnato nei prossimi giorni. L'hanno proposta tre deputati norvegesi per il lavoro svolto col suo centro, l'Ulpan Akiva. Nella piccola rosa di nove candidati ci sono Nelson Mandela, Vàclav Havel, il presidente Bush. Qualcuno dice per certo che la nomination provenga dai palestinesi di Gaza e che rappresenta un ulteriore segnale di distensione fra ebrei e palestinesi. Shulamith parla con voce roca e le erre in gola. Intorno alla sua colazione passa un mondo di aiutanti, di allievi. Ha fame di mondo, oltre che di peperoni rossi: abbraccia un immigrato russo e gli parla nella sua lingua madre. Si rivolge con confidenza al suo primo aiutante Ali Yehiee Adib, un grande arabo con gli occhi azzurri. In arabo naturalmente. Abbraccia un soldato druso che insegna arabo; dà una pacca a Samira Srur, un'insegnante di Gaza nera come l'ebano, ima palestinese dura, integrale. Tocca, passando nella sala da pranzo, tutti quanti: bacia, ride, stringe. E si vede che molti l'adorano, molti hanno paura di lei, della fondatrice di un pezzo d'Israele la cui extraterritorialità potrebbe essere una scheggia di futuro. Siamo all'Ulpan Akiva. Ulpan è semplicemente sinonimo di corso intensivo di lingua, fatto per i nuovi immigrati, un genere di cui Israele abbonda dagli albori. Rabbi Akiva era un maestro del Talmud del II secolo a. C, che imparò a leggere a quarant'anni e fu tanto grande da insegnare per primo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». L'Ulpan Akiva esiste da quarantuno anni. La sua più decisa caratteristica è quella di insegnare l'arabo agli ebrei e l'ebraico agli arabi israeliani e dei Territori. Se un arabo non se la sente di venire a studiare l'ebraico dentro la scuola che è un campus recintato sulla riva del mare, zeppo di soldati e soldatesse, l'Ulpan ha pronto un corso distaccato dentro il territorio di Gaza. Vi hanno studiato sotto la direzione di Sandra Srur seimila residenti della più infuocata area della regione. Nell'Ulpan di Shulamith, dove sono passati circa 60 mila allievi, si vive dentro piccole baracche in stile da kibbutz ma dotate di grandi servizi comuni e di una piscina sul mare. Chi si iscrive ai corsi si trova acchiappato in una così grande confusione di colori e di tradizioni che presto lo spaesamento diventa un costume di vita. L'anno scorso i 1701 studenti iscritti provenivano da 65 Paesi diversi. Toccandoli, baciandoli, fra molte ore di studio secondo un metodo inventato da lei, facendo ballare e cantare canzoncine arabe e ebraiche, arabi baffuti dei Territori e soldati col mitra a penzoloni, Katznelson crea una specie di incantesimo comunitario: un medico di Tulkarem (West Bank) può cantare Hava Nagila con un soldato di Tel Aviv e con un settler americano religioso. Non è un po' falso, un po' stucchevole? «Lo sarebbe - Katznelson guarda incredula tanta faccia tosta - se non si creasse nel frattempo la ferrea struttura dello scambio delle lingue e delle culture. Si impara storia, cucina, arte, feste gli imi degli altri, ognuno gode veramente della differenza. Il nemico torna a essere un vicino. Non mi illudo che questa sia pace. Proclamandola, troppe nefandezze sono state compiute. Niente convivenza, odio quella melassa in cui tutti diventano uguali. Niente grandi visioni, bandiere che garriscono al vento. Credo solo nell'esperienza degli uomini, che quando finalmente toccano con mano l'anima altrui, vedono che la differenza è meglio di tutto. Più divertente. Più emozionante». Ma in Israele la differenza ha creato cittadini dispari e neppure l'Ulpan Akiva può cancellare il loro scontento. «Certo che no. E' naturale. La mia speranza non è pacifista. Io tengo per Israele, sono nazionalista, sono religiosa. Il profeta Isaia testimonia di come Dio chiami l'Egitto "suo figlio", l'Assiria "sua pupilla", ma il popolo d'Israele è "il suo patto", il suo interlocutore, cui spetta il peso della testimonianza. A ognuno il suo ruolo». Shulamith in genere parte per i Territori su un pulmino bianco. Non ha mai avuto un incidente. mai una pietra. All'Ulpan non c'è mai stato un atto di violenza, anche se nella vicina Natania appena l'anno scorso le pugnalate fioccarono abbondanti. Quando va a Tulkarem, si mette la camicia bianca della festa, la gonna lunga, un foulard di chiffon colorato al collo, una spillina europea antica. L'accompagna Ali, l'arabo silenzioso sotto i baffoni, oppure Ofer Hamami, lo yemenita che si occupa della parte culturale dell'Ulpan, uomo di danze e di canti, alla maniera dei suoi nonni che vennero con l'ondata «Tappeto volante». «Poiché tutto ci giunge da lontano forse il mio pulmino è per me ciò che era per mia madre il cocchio a sei cavalli con cui la mia famiglia russa prerivoluzionaria solcava, carica dei suoi sogni sionisti e sociali, le strade d'Europa. I membri della famiglia parlavano fra loro solo ebraico, ma con la gente si discorreva in russo; e con le nanny in tedesco, francese, inglese. A diciotto anni la mia elegante, bionda mamma sbarcò a Tel Aviv per studiare (secondo il volere del padre) nella prima scuola superiore della Palestina. Mio padre, un ufficiale russo, usciva a sua volta da una famiglia di rabbini emancipati europei, desiderosi di nuove esperienze. Prima della rivoluzione del '17 mio nonno aveva creato due in¬ dustrie tessili dei cui utili gli operai erano compartecipi. Questo non gli impedì di finire deportato in Siberia dopo la rivoluzione. Aperture estreme, ebraismo estremo: questo è il primo messaggio che mi è venuto dalla mia aristocratica famiglia russa che poi con Ben Gurion, con Jabotinsky, con Trumpeldor, ha fondato lo Stato da destra, da sinistra, dal centro; i miei zii e mio padre parlavano solo ebraico in casa, ma prima di essere avviati alle sabbie dell'Impero Ottomano, poi protettorato britannico e infine Stato d'Israele, furono tutti ufficiali nell'esercito russo». Mischiare, mescolare le idee e i colori senza modificarli. Solo una divina presunzione di onnipotenza può congetturare una simile chimica: «Sono nata a Basilea dove, dopo essersi incontrati in Egitto, mio padre e la mia bellissima madre trascorsero un periodo di studio. Viaggiavano con facilità. Mia madre si è messa il rossetto per la prima volta a Napoli, durante uno dei tanti viaggi europei. Ma fu a Gerusalemme che ci stanziammo negli Anni 20. I nostri vicini di casa erano arabi. Dieci bambini in un letto, pasti strani e piccanti, erbe rosse e zafferano. A tre, quattro anni, già andavo da sola in questi paradisi di diversità. Mi perdevo nei suk e pontificavo (in arabo e in ebraico), seduta su sacchi di lenticchie gialle e nere. Mio padre, Reuven, divenne il pioniere della struttura assistenziale e sociale del futuro Stato d'Israele. Mia madre, Batsheva (fu bella tino a 94 anni, quando morì!), uno dei deputati del partito sionista nella seconda Knesset, il Parlamento; mio zio è stato un presidente della Repubblica. Irgun (la destra) e socialismo erano ugualmente di casa alla nostra tavola. Insieme a Ben Gurion nel giorno di Shabbat sedevano i bambini arabi e ebrei orientali che mio padre raccattava per strada. Una volta è arrivato a cena con un lebbroso e ha chiesto ai figli chi voleva cedergli la sua stanza. Fui io a farlo». La strada di Shulamith Katznelson verso l'Ulpan Akiva è piena di svolte ad angolo retto; irgun, haganà, kibbutz, laborismo, nazionalismo, insegnamento («Mi sentivo in gabbia, fuggivo ogni minuto in montagna a pensare. In qualunque struttura mi sentivo stretta, angosciata»). Finché le fu chiesto di accogliere e integrare linguisticamente alcuni piccoli arabiebrei provenienti da Siria, Iraq e Libano. «Mi si chiese un impegno di due anni. Accettai per tre mesi. Furono i migliori della mia vita. Si sono allungati a una vita intera. Insegnai a parlare ebraico con la vicinanza e l'amore, senza intellettualismi, incrementando e non sedando la nostalgia, con la poesia e la musica, ho sviluppato il metodo che oggi è quello dell'Ulpan più famoso del mondo. Mentre le grandi famiglie ashkenazite, come la mia, fondavano Israele senza troppo rispetto per le culture orientali, non so come intuii che loro, quei bambini siriani, erano i principi dell'ebraismo poetico. E che anche gli arabi loro primi fratelli, che ci chiedevano di partecipare ai nostri corsi, avevano una loro intangibile maestà da comunicare a Israele nascente». Ma lo Stato d'Israele, in tante diverse situazioni politiche, come ha visto il lavoro rivoluzionario della Katznelson? «Il ministero degli Interni ci aiuta a finanziare i corsi per gli arabi. Certo, l'Agenzia Ebraica alle volte ci ha richiesto se non sarebbe meglio aumentare il flusso di russi (già enorme) a scapito dei corsi d'arabo, e di quelli di ebraico a Gaza. Ma guardi cosa dice la Bibbia: Re Salomone costruì il Secondo Tempio solo con l'aiuto dei libanesi e degli egiziani. Guai a dimenticarselo». Fiamma Nierenstein «Qui si impara arte, storia, cucina, feste Ognuno gode della differenza» Shulamith Katznelson: di origine russa, la sua famiglia si stabilì a Gerusalemme negli Anni 20. Nella foto grande bambini palestinesi nei Territori occupati Mandela, a sinistra Havel, in alt» Bush: candidati al Nobel per la pace