Pechino, tutto ma non la democrazia

Pechino, tutto ma non la democrazia IL CONGRESSO DEL DOPO n Sotto l'egida di Deng (grande assente) Jiang Zemin proclama: bisogna creare ricchezza Pechino, tutto ma non la democrazia I comunisti cinesi lanciano il capitalismo rosso PECHINO DAL NOSTRO INVIATO All'albergo Ventunesimo Secolo va all'asta per 200 mila dollari una monumentale vettura «Bandiera rossa», che fu di Mao, mentre il congresso del partito comunista decide lo smantellamento del sistema socialista sul piano economico riaffermando su quello politico il proprio monopolio del potere. Grande liberalizzazione e privatizzazioni in economia per alzare il livello di vita e rafforzare la potenza economica e politica del Paese, ma non a prezzo di introdurre una democrazia pluralista e parlamentare di tipo occidentale. Questo il programma presentato dal segretario Jiang Zemin all'apertura dei lavori lunedì nell'immenso teatro dell'Assemblea del popolo sulla Tienanmen. Col compiacimento per l'accresciuta importanza della Cina e per i successi delle riforme, c'è il monito dettato dal crollo sovietico: se non si va avanti su questa strada per lo sviluppo, il regime è finito. La ritualità sino-comunista di queste occasioni c'è tutta: il centro addobbato a festa con grandi quinte multicolori di fiori fuori stagione a dare il senso di primaverile rinnovamento malgrado l'autunno incipiente; falce e martello e bandiere rosse; religioso ascolto in piedi dell'Internazionale. Ma dal capo del partito arriva il programma di smantellamento dell'economia di piano, la fine deli'automortificante egualitarismo pauperistico: «Povertà non è socialismo, ma prosperità simultanea per tutti è impossibile. Dobbiamo incoraggiare alcune regioni e individui a arricchirsi per primi, così che la ricchezza possa poi diffondersi». Perciò riforme «per fare una rivoluzione allo scopo di liberare le forze produttive»: liquidazione della pianificazione, riservando allo Stato solo compiti di direzione macro-economica, non di gestione; trasformazione delle corporazioni statali in grandi holdings su criteri privatistici; privatizzazioni di altre imprese pubbliche da vendere o dare in leasing; creazione di mercati e strumenti finanziari e assicurativi, sviluppo di borse con tutto ciò che esse comportano, come azioni, obbligazioni, titoli pubblici, operazioni valutarie, fondi di investimento; stimolo al mercato immobiliare; il tutto aperto anche a stranieri, per attrarre i quali si farà una legislazione che li garantisca. Piena liberalizzazione economica con un ruolo per lo Stato simile a quello di molti Paesi occidentali, sotto il nome di «economia socialista di mercato», teoricamente sistemata come «socialismo dalle caratteristiche cinesi»: formula che riassume le teorie di Deng Xiaoping, elogiate come suo maggior contributo teorico, e che sono, in realtà, negazione di teoria e esaltazione della pratica: -cercare la verità nei fatti. In una cultura politica e collettiva a lungo paralizzata dal «come» fare, invece che dal «che cosa», la teoria di Deng è stata sempre: «non importa che il gatto sia bianco o nero, purché prenda i topi». Così, nell'irrigidimento seguito alla Tienanmen, col quale furibonde canizie stavano per riallungare le mani sulla Cina per metterla di nuovo in gabbia, l'anziano monarca ha rilanciato l'offensiva per allargare le riforme avviate un decennio fa. Ai puri e duri che per bloccarle discutono se la loro natura sia socialista o capitalista ha risposto indicandone il successo: «L'essenziale è che facciano vivere il popolo meglio». Formalmente ritiratosi da ogni carica, Deng non partecipa al congresso, malgrado gli fosse stato chiesto di venire quale «Invitato speciale». Quella di Deng è in realtà una assenza-presente, arte suprema del potere. Dalla tribuna Jiang Zemin lo esalta più volte: «Ha chiarito molti nostri errati concetti che ci avevano confusi e ha scosso il nostro pensiero». Nell'impero dei segni, l'indicazione dello scossone e delle resistenze è al banco di presidenza: su 26 personaggi allineati, solo tre canizie indossano la giubba alla Mao; tre sono in uniforme, militari proclamatisi «scorta armata delle riforme»; gli altri, giacca e cravatta. Sul radicale programma hanno pesato gli eventi dell'89, l'impetuoso sviluppo dei Paesi vicini non socialisti e il crollo sovietico: «Abbiamo riflettuto sulla situazione internazionale e interna. La lotta di classe non è più un problema della nostra società. Lo sviluppo economico è il problema principale». Un obiettivo non solo in funzione sociale, ma patriottica e per la sopravvivenza del regime stesso, che potrebbe altrimenti essere spazzato via: «Un Paese arretrato è destinato a restare subordinato a manovre altrui. Molti, specie i nostri vicini, stanno accelerando lo sviluppo. Se non sviluppiamo rapidamente l'economia, sarà molto difficile consolidare il sistema so¬ cialista e mantenere stabilità sociale». Su questa strada, si ribadiscono i moniti contro le deviazioni di destra, ma soprattutto contro la sinistra, «molto più pericolosa e ben radicata, come se "sinistra" significhi essere più rivoluzionari», mentre «tutti gli errori dal '57 al '78, che hanno causato disgrazie e bloccato lo sviluppo, sono di sinistra». La trasformazione economica comporterà separazione tra ruolo del partito e del governo, e la costruzione di un sistema legale, ma «assolutamente non un sistema parlamentare occidentale e multipartitico». Si va quindi a un'economia di mercato, con iniziativa privata e imprese pubbliche da gestire con criteri privatistici, in un regime politicamente autoritario: è la via confuciana allo sviluppo felpatamente percorsa dal Giappone e apertamente da Corea del Sud, Taiwan, Singapore, «tigri» del Sud-Est asiatico. Alle quali, nello spegnersi del mito di «L'Oriente è rosso», si affianca il dragone continentale. Fernando Mazzetti tue :>. «su r% Il presidente Yang Shangkun (sinistra) e Jiang Zemin ieri al congresso IFOTOAP]

Persone citate: Deng Xiaoping, Fernando Mazzetti, Jiang Zemin, Mao, Yang Shangkun

Luoghi citati: Cina, Corea Del Sud, Giappone, Pechino, Singapore, Taiwan