Nembo Kid dietro il marziano

Nembo Kid dietro il marziano Riva sta per superare Morse e diventare il 2° realizzatore di tutti i tempi Nembo Kid dietro il marziano In testa, irraggiungibile, c'è Oscar Antonello: io un perdente? Non è vero MILANO DAL NOSTRO INVIATO Dopo Oscar, brasiliano ma anche un po' marziano, c'è subito lui: domenica scorsa ha dato il primo schiaffo al basket targato Usa raggiungendo Jura a quota 9779, oggi contro la Clear Cantù completerà l'opera togliendo il secondo posto a Morse (gli bastano sette punti: che cosa sono, per un bomber come Antonello Riva?). Quando Riva tira da lontano, sembra che il canestro sia dotato di una potente calamita; quando tira in sospensione, si procura lo spazio necessario grazie all'arresto e allo stacco in aria in un tempo solo: da una selva di corpi schizza fuori lui, all'improvviso, come se i suoi piedi fossero su una molla, come se volasse. Per questo lo chiamano Nembo Kid. «Nembo Kid? Sì, è un soprannome al quale ho imparato a voler bene. Mi dà forza: e quando giochi, non devi aver paura di niente. Dicono che mi riesce tutto perché ho classe: come l'altro Riva, Gigi, che col sinistro faceva ciò che voleva. Ma non è vero: la classe non basta». Però aiuta. Quelle «bombe» sono una pennellata: uno spettacolo nello spettacolo. «Grandi tiratori si nasce, non si diventa: se non lo sei, puoi migliorare, ma non arriverai mai tanto in alto. Io ho avuto un dono dalla natura. Ma devo allenarmi molto, per rendere i movimenti sempre più meccanici, sempre più perfetti. Non si può dormire sugli allori. Io sono di Romagnate, un paesino al centro della Brianza. Ed i brianzoli sono felici solo quando sono stanchi. Io sono come loro, anzi sono uno di loro: credo nel lavoro. Baratterei volentieri, comunque, il mio record di punti con un altro scudetto». Ha segnato tanto, eppure ha vinto meno dì quanto avrebbe potuto. C'è chi sostiene che lei, in fondo, sia un perdente. Che cosa risponde? «E' un'etichetta, quella del perdente, che qualcuno mi ha appiccicato addosso ingiustamente. Una seconda pelle, che non voglio ma non riesco a togliermi. Senta: ho vinto uno scudetto, due Coppe dei Campioni, due Coppe delle Coppe; con la Nazionale ho conquistato il titolo europeo nell'83 e l'argento nell'89. Non è poco. Certo, ciascuno di noi può fare di più, nello sport come nella vita. Ma io ho sempre cercato di dare tutto». Sembrava che volesse lasciare la Nazionale dopo le Olimpiadi: ma poi l'Italia non si è qualificata e lei ha fatto retromarcia. «E' vero. I ritiri sono sempre più pesanti, per chi come me ha moglie e figli ed è legatissimo alla famiglia. Ma a Barcellona non siamo andati e questa delusione mi ha dato la spinta per proseguire. Fino a quando? Non so. Quella di Los Angeles fu un'esperienza bellissima, ma Atlanta è lontana ed io ho trent'anni». Che effetto le fece, nell'estate dell'89, passare da Cantù a Milano per sette miliardi? Fu come un sasso gettato in uno stagno. «All'inizio mi sentii scombussolato. Tutti quei soldi... Pensai al mio primo trasferimento: Cantù mi aveva prelevato dalla squadretta dell'oratorio di Rovegnate dando in cambio al parroco un pulmino usato. Ma ci si abitua a tutto. Anche ad essere pagati a peso d'oro». Quando torna a Cantù, che cosa prova? Nostalgia? Rimpianti? «E' sempre una sofferenza. Perché ci sono tifosi che mi insultano, come se fossi un traditore. E' difficile farci l'abitudine, anche se si tratta di ragazzi che magari non mi conoscevano neppure, quando giocavo a Cantù». Ora è ricco, è famoso. Che cosa significano per lei i quattrini? «Senta: mio padre faceva il piastrellista, io tornando da scuola davo una mano, caricavo e scaricavo camion, lui non vedeva l'ora che lo aiutassi a tempo pieno, non voleva nemmeno che dopo le medie mi iscrivessi a ragioneria. Questo per spiegarle che ho sempre saputo rispettare la lira. I soldi sono importanti. Ed io non li spreco. Sarebbe come dare uno schiaffo a chi suda molto più di me e guadagna molto di meno». Guai è stato, per lei, il momento più emozionante? «Avevo sedici anni, andai per la prima volta in panchina in serie A. Accanto a me avevo campioni come Marzorati, Della Fiori. Erano dei miti. Mi sembrava un sogno. Mi tremavano un po' le gambe. Sono sensazioni che non si dimenticano». E il momento più difficile? «Nell'85 subii un delicato intervento ad un ginocchio. Un mese di immobilità, un mese e mezzo per la rieducazione. Sembrava che tutto fosse andato bene, ma il ginocchio continuava a gonfiarsi. Temevo che non avrei più potuto giocare. Ero disperato. L'aiuto di mia moglie fu fondamentale: ritrovai la tranquillità interiore che avevo perso. Mi sono sposato a 21 anni: la famiglia è la mia valvola di sicurezza. Se in campo mi chiamano Nembo Kid, lo devo anche a mia moglie». Quando non vola in soccorso di qualcuno, il Superman dei fumetti è un signore in grigio: si chiama Clark Kent, è un giornalista timido, con gli occhiali, fa di tutto per passare inosservato e ci riesce bene. Anche Riva, eroe del parquet e idolo dei tifosi, quando è lontano da quel canestro è un Clark Kent. Ha una casa nel verde, lontano dai frastuoni della città: e in quell'oasi di pace cerca di disintossicarsi dai clamori della domenica. Cerca di mimetizzarsi perché sa che soltanto così potrà ritrovare veramente se stesso. Ma lo fa anche per ricaricare le batterie. Perché la domenica Clark Kent deve lasciare i panni del signore in grigio e tornare ad essere Nembo Kid: come se i suoi piedi fossero su una molla, come se sapesse volare. Maurizio Caravella OSCAR MORSE R1VA JURA VILLALTA