«Andatevene a casa, siete sorpassati» di Fabio Martini

«Andatevene a casa, siete sorpassati» Oltre quindicimila fedelissimi alla convention romana dei «Popolari per le riforme» «Andatevene a casa, siete sorpassati» Segni all'attacco della do. è come una mela bacata ROMA. Manca ancora mezz'ora all'«ora x» e Mario Segni, rinchiuso in una stanzetta assieme alla moglie Vicky e alla figlia Lucia, si avvicina alla finestra, tira la tenda e scruta la gente che entra al Palasport. Per Mariotto è il giorno più lungo, ma la sua gente non lo ha tradito: alle 10,55 quando fa capolino nel catino bollente, non c'è un posto a sedere al Palaeur, ma è soprattutto l'umore che circola nell'aria, sono gli slogan urlati a tutta voce che segnano, da subito, l'evento: «Fuori, fuori, fuori!», grida la platea. Fuori dalla de, fuori dal vecchio sistema. E Segni li accontenta. In 45 minuti, con la sua voce monocorde che non aiuta le emozioni, Mariotto racconta finalmente il percorso che ha in testa e dice proprio quello che i quindicimila invocano con quel «fuori!»: Segni colpisce tutto e tutti e alla fine quasi nessuno si salva. La de? Segni - con uno di quei piccoli miracoli permessi dai discorsi scritti a tavolino - non la nomina neppure una volta: per lui l'eterno dilemma - fuori o dentro? - sembra superato. Il leader referendario non annuncia addii, ma sembra già «oltre» la de. Nel silenzio mozzafiato della platea, Mariotto scandisce, con il suo acce^ o sardo, ogni parola: «Martii azzoli è chiamato a guidare un partito - Segni chiama così la de - nel quale gran parte della classe dirigente è irremediabilmente condannata». Parole inebrianti per i quin- dicimila, che a questo passaggio scattano in piedi felici, regalano al loro leader l'applauso più lungo ed emozionato. Segni, immobile nel suo completo blu, ascolta in silenzio il tripudio e lui che è un sardo dai nervi saldi, alla fine accenna a un tic: serra le labbra una, due, tante volte. Certo, nelle sue parole c'è ancora un varco alla speranza, quando definisce la de «una mela bacata dal seme sano». Ma per far germogliare il seme, Martinazzoli deve andare «ad una rottura netta con il passato». E se il nuovo segretario ce la facesse? Se così farà, Segni non dice: «A quel punto io resterò nella de», ma si rivolge così a Martinazzoli: «Se rinnoverai profondamente vedrai fatalmente che la prospettiva che noi stiamo costruendo significa salvare il seme e buttare la mela bacata». Segni non lo dice, ma lo fa capire: la de potrebbe essere costretta lei a inseguirci, magari nei Comuni. Tanto più che Segni annuncia in modo plateale e formale il suo prossimo passo, la prima sfida ad alto rischio dei «Popolari per la riforma» che ieri sono salpati dal Palaeur: il lancio di liste «alternative ai partiti immobili» nei Comuni dove sarà possibile. Un proposito già annunciato, ma c'è una novità, forse la più corposa annunciata ieri mattina sotto le volte disegnate da Pierluigi Nervi: «Sono pronto a partecipare personalmente alla battaglia - annuncia Segni - non importa che si tratti del Comune più grande o più piccolo». E così mentre alza ancora più la sfida, mettendosi in gioco personalmente, Segni fa capire anche di avere in testa imo scontro diretto, magari a Milano, un faccia a faccia contro Umberto Bossi, contro la Lega «avventurista». E in questa sfida diretta c'è tutto il messaggio di Segni: la de, se vuole, dove vuole, può partecipare, può accodarsi, ma la vera sfida all'antagonista emergente, la Lega, non la fa la democrazia cristiana del bresciano Martinazzoli, ma la fanno i Popolari di Mario Segni. E la sfida alla Lega, Segni la pronuncia con un linguaggio, un orgoglio nazionalista («viva l'Italia!») con toni gollisti, citando a ripetizione «la Nazione». Poche chances dunque, per Martinazzoli, anche perché per Segni tutti i partiti sono superati, ridotti a «comitati d'affari» e la vecchia classe dirigente deve andare tutta a ca- sa: «Nessuno di loro - dice Mariotto - può rimanere». Nel futuro, ammesso che sia varata una riforma elettorale uninominale maggioritaria, c'è «una grande Alleanza democratica». E Segni per la prima volta fa capire - ed è l'altra grande novità del discorso - chi vede come propri partner: «Dobbiamo unire le nostre forze a quelle di chi ha i nostri obiettivi nel mondo laico, nella sinistra, tra gli ambientalisti». Alla fine l'impatto con la platea funziona: per Mariotto e il suo discorso, studiato assieme al politologo bolognese Arturo Parisi, 42 applausi in 45 minuti. Prima di Segni aveva parlato, applauditissimo, Romano Prodi: «Si può essere ricchi e stupidi per una generazione, ma non di più». E ancora: «Da decenni la politica è concepita come mediazione e i partiti non sanno più quali interessi difendere ed allora hanno preso la decisione eroica di restare fermi». E quando i riflettori si spengono, una signora distinta si avvicina a Segni: «Che ne dice lei presidente del Consiglio e Prodi al Tesoro?». Fabio Martini W I RTAS «Martinazzoli deve salvare il seme buono e buttare il frutto marcio» Mario Segni accarezzato dalla figlia al termine del suo discorso (foto a sinistra), un'immagine del Palaeur affollato di gente (a destra)

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