Bisogna credere di più alle battute di Wilde di Osvaldo Guerrieri

Bisogna credere di più alle battute di Wilde «L'importanza di chiamarsi Ernesto», regista Fenoglio Bisogna credere di più alle battute di Wilde TORINO. Curioso. Nell'«Importanza di chiamarsi Ernesto», con cui un gremitissimo Alfieri ha aperto la sua stagione di prosa, non si pronuncia mai il nome «Ernesto». Giacomo Worthy e Agenore Moncrieff, i due amici che per attuare i loro traffici amorosi si fregiano di questo finto nome, nello spettacolo di Edmo Fenoglio dicono di chiamarsi «Costante», mandando così in cantina l'ambiguità su cui si regge la deliziosa commedia di Oscar Wilde. Il quale, giocando sull'ambiguità (impossibile in italiano) di Ernest e Eamest, cioè di Ernesto e Onesto, trasformava un sedicente Ernesto in un involontario Onesto. Non era soltanto un paradosso, né soltanto il trionfo dell'irresponsabilità. Era soprattutto una beffa nei confronti del dramma serio che, in quel 1895, invadeva'le scene inglesi con le sue storie di trovatelli, amori contrastati, scambi di identità, agnizioni. Il trucco di Wilde era semplice e proveniva direttamente dalla poesia di Alexander Pope: consisteva nel mettere sullo stesso piano le cose serie e quelle frivole. Vedi, per esempio, la prontezza con cui i due protagonisti chiedono il battesimo quando le ragazze da loro corteggiate dicono di amarli perché convinte, a torto, che si chiamano Ernest; e vedi i tramezzini al cetriolo, che al frastornato pubblico- del debutto parvero il principale argomento del primo atto. A Lady Bracknell è affidato il compito gravoso di dare voce all'invincibile ottusità dell'«upper class» britannica, verso cui Wilde provava attrazione e repulsione. Straordinaria la battuta: «Lei fuma?... Mi fa piacere. Un uomo deve sempre avere una occupazione di qualche tipo. Ci sono già troppi fannulloni in giro per Londra». Puro gioco di sottigliezze, delizia epigrammatica: «L'importanza di chiamarsi Ernesto» è soprattutto questo. E si può capire che Fenoglio ne abbia stilizzato il disegno, eliminando ogni forma di ambientazione realistica e chiedendo allo scenografo Eugenio Guglielminetti un luogo neutro, un contenitore (che qui somiglia a un foglio di cartoncino Bristol ripiegato ai lati) che gli attori arredano a vista, come per sottolineare il carattere simulatorio di ciò che andranno a interpretare. Ma a questo punto bisognerebbe fingere di credere ciecamente nelle battute di Oscar Wilde, occorrerebbe interpretarle con grande serietà, un po' come si fa con Ionesco. Soltanto così il «Society drama» esplode dall'interno e disperde i suoi pezzi in un'infiorescenza di stupidità mondana. Invece non tutti gli attori dello spettacolo condividono questa necessità. Qualcuno sembra uscire da un vaudeville, i maggiordomi s'impegnano in una inesistente «recitazione all'inglese» o a creare un falso quanto immotivato settecentismo buffonesco e ubriacone. Per fortuna le cose vanno meglio con i protagonisti, con Ileana Ghione, controllatissima nella parte della svaporata, ottusa e deliziosa Lady Bracknell; con Carlo Simoni, che fa di Giacomo Worthing un bellimbusto dai sentimenti multipli. A fargli da spalla, in questo gioco supremo della menzogna e dell'ipocrisia, ecco l'Agenore Moncrieff di Alessandro Spadorcia. Guendalina e Cecilia, di cui si innamorano i due amici che alla fine si scopriranno fratelli, sono Monica Ferri e Maddalena Recino. L'istitutrice Miss Prism, colpevole in anni lontani di avere smarrito Giacomo Worthing dentro una borsa alla stazione Vittoria, è una Livia Gentilini che rischia spesso di uscire dal rigo. Il canonico Chasuble, di cui Miss Prism è innamorata, è Sandro Pellegrini. Tutti sono stati molto applauditi da un pubblico visibilmente soddisfatto. Osvaldo Guerrieri Ileana Ghione, controllata nella parte dell'ottusa svaporata e deliziosa Lady Bracknell, ha aperto l'altra sera la stagione dell'Alfieri con la commedia di Wilde

Luoghi citati: Londra, Torino