L'ORRORE VOLUTO DA MUSSOLINI di Alessandro Galante Garrone
L'ORRORE VOLUTO DA MUSSOLINI L'ORRORE VOLUTO DA MUSSOLINI BA pena vedere il baldanzoso segretario del msi Gianfranco Fini spacciare con sicumera pagelle di buona o pessima storiografia, come nella sua lettera a questo giornale e nella successiva intervista con Alberto Staterà. A sentir lui, Mussolini aveva una volta per tutte condensato il suo «pensiero» in tema di razzismo con una lapidaria frase del 1936: «Il razzismo è una sovrana imbecillità, una faccenda per popoli biondi» (una frase che, senza volerlo, con quell'accenno al color delle chiome, finiva per assumere anch'essa un colore razzista). In realtà, di battute antirazziste il duce ne disse a bizzeffe, addirittura a partire dal 1920. Ma perché Fini non dice che quel signore del pensiero, nel 1938, cominciò di punto in bianco a dire, e a minacciar truculento di fare, esattamente il contrario? Non credo che occorra un grande acume di storico per intuire le ragioni - diciamo docilmente mimetiche - di questa repentina svolta. Poco dopo, le leggi antisemite sancivano la vile acquiescenza al potente alleato. Dov'era, in tutto questo, un briciolo di coerenza, di lungimiranza, di dignità? Ma la mistificazione ben più grossolana di Fini era un'altra. Egli affermava che le stesse leggi razziali del 1938 (la cui introduzione - come egli aggiungeva, bontà sua - fu comunque un «errore») furono «largamente disattese per esplicita volontà dello stesso regime». Parole come queste non potevano passare sotto silenzio. Uno dei suoi critici gli ribatteva che non di errore si trattava, ma di orrore. E allora un corsivista del Secolo d'Ita¬ lia faceva un passettino in avanti scrivendo, un po' nebuloso, che quelle leggi erano state «un errore amplificato nell'orrore» (dell'Olocausto, implicitamente). E subito Fini, nella citata intervista, ha pedissequamente accennato, con calcolata prudenza, a «un errore che determinò anche orrori», senza indicare quali. Ma perché non ha avuto il coraggio di dire come andarono le cose? Quelle leggi del '38 non furono un errore; né furono soltanto la premessa che agevolò, col predisporre gli elenchi degli ebrei italiani, il successivo orrendo sterminio; ma, nell'immediato, un monstrum giuridico, e soprattutto una nuda infamia camuffata da sembianze legali. Mussolini la volle, e il re la firmò. La falsificazione più grottesca della realtà è tuttavia sostenere che quelle immonde leggi fossero state disattese o disapplicate per esplicita volontà del regime. Ma nessuno ha mai detto a Fini come andarono invece le cose? Non gli è mai accaduto di leggere una sola delle molte migliaia di prove inconfutabili? Legga almeno i documenti apparsi nell'ultima edizione della classica opera di Renzo De Felice. Si convincerà, se ha un'oncia d'intelletto e di buona fede, che quel regime, sotto l'egida del suo capo supremo, perseverò nelle direttive del novembre 1938, ne sorvegliò la meticolosa e severa attuazione, intervenne, con apposite circolari, per vanificare i tentativi di aggiramento di quelle barbare norme. Mediti sulle ultime lettere a questo giornale di Giorgio Vaccarino, uno studioso che i documenti li conosce e li interpreta con serietà; o di Lia Hassan, travolta, come tante migliaia di ebrei "italiani, da quell'enorme misfatto di Stato. Si ricreda, se è un uomo onesto. E' vero che ci furono molti episodi di salvataggio; ma lo si dovette non al regime, bensì alla generosa e rischiosa iniziativa di singoli individui, anche di funzionari fascisti, che agivano contro le istruzioni impartite dall'alto, unicamente per un istintivo senso di umanità. Mi torna alla mente una frase di Salvemini: «O popolo italiano, destituito di senso comune, di senso politico, di senso giuridico, di senso religioso, di senso economico, di senso morale, di tutti i sensi possibili ed immaginabili dell'universo, ma ricco come nessun altro popolo della terra di un senso solo, il senso di umanità». Inveisca pure Fini contro la Resistenza; sostenga, se gli garba, che Mussolini è stato «il più grande statista del secolo». Siamo in un Paese libero; e ogni botte dà il vino che ha. Invochi, se lo desidera e gli par bello, una «pacificazione» che cancelli il ricordo della «guerra civile» del 1943-'45. Ma per me, per noi resta fermo che nessun discorso può essere intavolato se preliminarmente non si riconosca almeno la indiscutibilità di quel che uno storico come Roberto Vivarelli ha scritto di recente: che agli occhi di tanti, la Germania, ancora nel 1943, sembrava poter vincere la guerra; e che una tale vittoria avrebbe significato, per l'Europa e il mondo, la fine della civiltà europea. La «guerra civile» era «una guerra per la civiltà». Questa era la suprema posta in gioco. Non possiamo dimenticarlo. Alessandro Galante Garrone
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