Ritorna Pifano, l'irriducibile «Voglio ancora cambiare le cose»

Ritorna Pifano, l'irriducibile «Voglio ancora cambiare le cose» IL REDUCE E UN A VITA «CONTRO» Ritorna Pifano, l'irriducibile «Voglio ancora cambiare le cose» ROMA. Sul fuoco ci sono il sugo a base di pesce surgelato e l'acqua per la pasta. Ma per spiegare quello che è successo venerdì a Roma Daniele Pifano abbandona tutto. «Vedi il labbro gonfio e il bernoccolo? Quando la polizia ha cominciato a caricare ci siamo seduti per terra, un funzionario della questura mi è venuto davanti e mi ha preso a calci in faccia. Ho pensato di andare all'ospedale e fare la denuncia, ma poi ho detto: meglio di no, è inutile fare la vittima. Poi stamattina sui giornali leggo che Pifano è il capo della rivolta violenta, io che sono stato aggredito divento l'aggressore». Il pranzo ormai può aspettare, vadano avanti gli altri - moglie, figlio e amici - nell'appartamento all'ultimo piano di un palazzo del quartiere Prenestino, un ammasso di anonimi caseggiati a ridosso del mercato rionale. E' il momento della «controinformazione» sulla manifestazione sindacale dell'altro ieri. Paolo Virno, indicato dalle agenzie di stampa come uno dei «soliti noti» visti in piazza a guidare i disordini, telefona da Anacapri per precisare che lui è lì da una settimana; Daniele Pifano invece in piazza c'era davvero, e racconta: «Io sono un dipendente dell'università, uno del pubblico impiego e il sindacato aveva chiamato a raccolta proprio la mia categoria. Arrivo lì e mi dicono che io e altri compagni non possiamo entrare nel corteo. Perché? Perché siamo dei Cobas. Ma come, tu mi blocchi il contratto da tre anni, abolisci la scala mobile, fai tutto quello che ti pare senza mai consultarmi, poi mi chiami in piazza e io non posso venire a dirti che non sono d'accordo? E' una follia». Oggi Daniele Pifano ha-47 anni, è sulla breccia della contestazione da quasi trenta, dalla metà degli Armi 60. E' sempre citato quando si parla dei «reduci» o dei «sopravvissuti» del «movimento». Ma queste definizioni non gli vanno giù, lampi di insofferenza attraversano il viso scavato e quegli occhi marroni e profondi. «Dicono che sono un leader, anche se io non sono mai stato il capo di nessuno. A differenza di altri però non mi sono riciclato, né ho trovato un posto al sole: ma non si dice che sono rimasto coerente, che sono semplicemente uno che vuole ancora cambiare le cose; si dice che sono un vecchio arnese buono per tutte le manifestazioni. A parte che non è vero, ma che do- vrei fare? Scomparire? E' quella l'unica alternativa alla conversione? E se il destino di chi vuole contestare è di essere caricato con i manganelli della polizia o con gli "Stalin" del servizio d'ordine sindacale, è naturale che poi trovi chi si tira su la sciarpa, e ti restituisce la bastonata». Eccoci arrivati: la violenza, il ritorno agli Anni 70, anzi al "77, l'anno delle P38. Pifano c'era allora e c'è oggi: che cosa è cambiato nel «movimento»? Come è cambiato lui? E' possibile che si ripeta ciò che accadde quattordici anni fa? «Stammi a sentire: i giovani pronti a usare la violenza ci sono, e io non sono d'accordo con loro. Non sono un nonviolento, ma penso che per un vero comunista la violenza è sempre una diminutio, un fatto che interrompe il dialogo e la capacità di comprensione. E' stata usata in passato, abbiamo sbagliato a non capire dove avrebbero portato i discorsi sulla violenza proletaria o sulla dittatura del proletariato. Ma oggi ha ancora meno senso, perché non è più il tempo delle contrapposizioni di principio. Io non voglio lo scontro fisico con il sindacalista, voglio confrontarmi a parole, democraticamente. Ma è la struttura sindacale che non vuole, perché se accettassero il dialogo poi sarebbero costretti ad andarsene a casa». A volersi orientare in questo intreccio di pensieri e parole si finisce a rifare la storia di un uomo che passa per uno sempre uguale a se stesso, e che invece dice di essere cambiato, pur rivendicando la propria coerenza. «Io - racconta il Pifano del '92 non vengo da una famiglia comunista o di contestatori. Ma a 18 anni mi sono ritrovato emigrante calabrese a Roma. Ero uno studente di Medicina, e vedevo come venivano trattati i malati del Policlinico: nel reparto paganti erano tutti serviti e riveriti, in quello per i non paganti c'era l'inferno. Poi i "baroni" che operavano nelle cliniche private e tutto il resto. E' lì che mi sono avvicinato al comunismo e ai discorsi sulla lotta di liberazione, che può passare anche per la violenza. Era come riprendere in mano il filo della Resistenza che il pei aveva ab- bandonato per andare al governo». Il salto nel terrorismo, nelle «formazioni guerrigliere» come le chiama lui, è stato evitato perché - dice Pifano - «ti accorgi che la pratica violenta ti coinvolge a tal punto da trasformarti e farti perdere di vista l'obiettivo finale». Ma la galera arriva ugualmente, quei missili trasportati per conto di un gruppo palestinese si trasformano in cinque anni di carcere per il lea¬ der di Autonomia operaia: «Noi avevamo un rapporto concreto coi compagni palestinesi, ci chiesero di aiutarli. Ritengo giusto averlo,fatto, anche se poi gli stessi palestinesi si sono resi conto che paga più l'Intifada che un assalto come quello alle Olimpiadi di Monaco». E oggi? «Oggi è tutto diverso, tranne i problemi che restano gli stessi: sono tuttora convinto che se l'umanità non raggiunge un equilibrio globale, è destinata a scomparire. Per questo sono ancora incazzato e continuo a protestare, perché mi sento in colpa nei confronti di Andrea, mio figlio». Andrea è un ragazzino di 7 anni, vispo e intraprendente, uno che a scuola racconta che suo padre è stato in galera «perché voleva aiutare i bambini che non hanno niente da mangiare». Adesso parla di nuovo il papà: «Una volta credevamo che la rivoluzione fosse dietro l'angolo, oggi invece la lotta passa per l'impegno su problemi immediati che possono cambiare la vita di tutti i giorni e facilitare anche il cambiamento generale». Così il «tribuno» Pifano è diventato uno degli animatori del comitato di quartiere, dove lavora gomito a gomito nella sede del pds con post-comunisti, cattolici e verdi. Tutta gente con la quale, nel famoso '77, sarebbe stato impossibile il dialogo. Nuovi amici che si sommano a quelli di un tempo che «ancora hanno voglia di protestare». «Qui vicino - racconta il leader autonomno - Ligresti e un altro costmttore amico di Andreotti volevano fare un centro commerciale in uno dei pochi spazi verdi. Avevano truccato il piano regolatore per ottenere la licenza, siamo riusciti a fermarli e ora stiamo tentando di far aprire un parco. Poi stiamo cercando un sistema per impedire alle macchine di parcheggiare sui marciapiedi, e in questo palazzo abbiamo messo su una specie di cooperativa in cui ciascuno fa gratis i lavori che sa fare nelle case degli altri». Una sorta di mutuo soccorso, insomma, come l'aiuto agli immigrati extra-comunitari: «Contro il razzismo serve di più diffondere la loro cultura nel quartiere che assaltare la sede dei naziskin». E poi c'è la famiglia. «Sì - dice il marito-padre Pifano - ma una famiglia aperta, con continui contatti con gli altri. Adesso abbiamo preso una casa abbandonata qui vicino, vorrei rimetterla a posto per andarci a vivere con più persone: ma non sarà una "comune" di hippies, semplicemente un luogo dove le persone e i bambini possano mettere insieme le loro vite e le loro esperienze». Altri figli in arrivo, dunque? «No, non credo, perché mi sembra immorale mettere al mondo dei bambini quando ce ne sono tanti che muoiono di fame. Semmai ne prenderemo qualcuno dalla strada, che almeno potrà mangiare». Proprio come dice Andrea, che nel frattempo ha finito di pranzare con gli altri mentre suo padre spiegava perché era in piazza l'altro giorno a Roma. Giovanni Bianconi «Oggi continuo a protestare perché mi sento in colpa nei confronti di mio figlio Andrea». «A. differenza di altri non mi sono riciclato» A sinistra Pifano davanti alla sede di via dei Volsci. Sopra un'immagine di questi giorni e a destra l'arresto nell'82 :; ■ '/£ v/yj* Oggi Pifano lavora all'Università, Sopra Giulio Andreotti e, in alto, Bruno Trentin

Luoghi citati: Anacapri, Monaco, Roma