« Com'era bella la mia dc » di Fabio Martini

« Com'era bella la mia dc » IL FEDELISSIMO DI ANDREOTTI « Com'era bella la mia dc » Evangelisti: vedo Giulio alla presidenza LROMA E babbucce di pelle ai piedi, adagiato nella sua poltrona, Franco Evangelisti è l'immagine della democrazia cristiana di queste settimane. Nel suo ufficio di via Sant'Eufemia, alle falde del Campidoglio, il vecchio guerriero stanco guarda la finestra e sussurra: «Che crisi per la de. Ne ho viste tante nella mia vita, ma una tempesta così, mai...». C'è una luce plumbea nello studio di Evangelisti, nel cuore della Roma imperiale: è mezzogiorno e i bei quadri di Morandi, Purificato, Fantuzzi restano avvolti nella penombra. Ogni tanto squilla il telefono, ma Evangelisti continua a raccontare le «tante crisi» della de. Ricorda gli scontri con quel «tappetto di Fanfani», i tanti tradimenti («Rumor fu lasciato da Bisaglia», «Scotti, infido, è stato con tutti»), non ha fiducia nei parenti di Andreotti che si sono messi in politica: Ravaglioli il genero è «moscio» e Danese il nipote «è un galletto». Ma si incupisce quando parla del futuro della de: «Fino ad oggi nella de il rinnovamento sa cosa è stato? Fatti da parte tu, che al tuo posto, ci vado io... Ma ora non è più tempo di scherzare. Devono andare tutti a casa, nessuno escluso». A 70 anni Franco Evangelisti è diventato saggio. Lui, proprio lui, con la sua vita da furiere della politica, i suoi modi spicci, le ire romanesche, le battute diventate proverbi. Eppure Franco Evangelisti è uno di quei democristiani che sa di quel che parla. Pochi conoscono il partito come lui: sulla nave democristiana è salito 50 anni fa e da allora è passato per le stive, la sala macchine, la plancia di comando. Al principio del viaggio c'era un ragazzo di nome Giulio Andreotti. «Era il 1946» ricorda Evangelisti: nella febbre della democrazia ritrovata si riuniscono a convegno i giovani democristiani. Franco Evangelisti si avvicina al pupillo di De Gasperi e gli chiede: «Senti Giulio, ti fa piacere se ti votiamo?». Ma il «dottore» - lo chiamavano così in quegli anni - non risponde. Evangelisti rifa la domanda, ma la sfinge tace. «Rimasi colpito - ricorda Evangelisti - dal fatto che un giovane di 26 anni non si umiliasse a chiedere appoggi. E diventai subito suo amico». Quante tempeste, da allora. Quante crisi apparentemente gravi per la de, per il «dottore» e il suo angelo custode. «La prima - racconta Evangelisti - arrivò nel 1954, alla morte di De Gasperi». Un ministro democristiano decretò: «De Gasperi è morto e ora liberiamoci di Andreotti». Illusi. Il vecchio Evangelisti riva indietro con la memoria e gli occhi si illuminano: «Fu allora che fondammo la nazionale "Primavera"», il nucleo della corrente andreottiana, la zattera per attraversare i marosi dell'era fanfaniana. «Che tempi, eravamo un gruppo compatto, diverso da quello che si raccoglie attorno ad Andreotti oggi. Eravamo io, Nicola e Amerigo...». Io, Nicola e Amerigo e cioè Nicola Signorello, Amerigo Petrucci e Franco Evangelisti. Già, ma perché così diversi da Pomicino, da Vitalone, da Sbardella, gli andreottiani di fine secolo? «La differenza? Semplice: si era più amici. Oggi ognuno pensa più a se stesso, mentre allora c'era un affetto, una stima illimitata per il capo, per Giulio». Io, Nicola e Amerigo non pensavano ad altro che a consolidare il gruppo. «Stavamo insieme tutto il gior¬ no, andavamo a cena in osteria e poi la mattina alle nove ci rivedevamo e ci chiedevamo: novità? Ma che novità potevano esserci?». Anni duri, gli anni Cinquanta con Fanfani trionfante. «Sì, il tappetto - sorride Evangelisti che gusto quando riuscivamo a batterlo». Eppure, sui ricordi di quel gruppetto così affiatato, pochi giorni fa è piombata un'insinuazione mozzafiato. Sbardella il transfuga ha fatto capire che il mandante occulto dell'arresto di Amerigo Petrucci, diventato sindaco di Roma nel 1964, possa essere stato proprio Andreotti. Il vecchio Evangelisti si scuote: «Indecente, ma come si fa a dire una cosa del genere?». Ma poi aggiunge una curiosa chiosa: «Ma lo sa come si chiamava il giudice del povero Amerigo? Si chiamava Giulio Franco. Il nome mio e quello di Andreotti». No, questa faida in casa andreottiana non gli va proprio giù. «Sbardella? Un bravo organizzatore, uno col quale non voglio polemizzare, ma certo lo stile è quello che è. Le origini si vedono: alla de lo portò Ennio Pompei, anche lui un ex missino». E gli amici restati a fianco di Giulio di che pasta sono? Il vecchio marpione nicchia: «Andreotti non è andato al Quirinale e non se l'è presa. Ma se non ce l'ha fatta, lo deve anche alla corrente». Ma come, non erano Gava, Forlani e De Mita che gli hanno sbarrato la strada? «Sì, ma nella fase delle trattative gli amici di Andreotti si sono mossi in modo improvvisato». Pomicino? «Sì, lui, anche altri. E' un peccato perché in tutti i partiti c'è un "partito andreottiano". Anzi, sa che le dico? Se avessi avuto un po' più di forze, Andreotti sarebbe diventato presidente della Repubblica». E Ciarrapico che tipo è? «Non so, con i debiti non si capisce bene». Ma almeno come presidente della Roma la convince? ((All'inizio era un macello, di calcio non ci capiva niente, ora va meglio, ha fatto una bella squadra». E i giovani leoni? Quel Luca Danese, nipote di Giulio? «Ottimo ragazzo, simpatico, ma il coordinatore degli andreottiani del Lazio sono io e quando sento che certi galletti si autonominano, sorrido». Andrà bene almeno il genero di casa Andreotti, quel Marco Ravaglioli fresco deputato al Parlamento? «Anche lui ottimo ragazzo, ma un po' moscio». Come dire: di Evangelisti ce n'è stato uno solo, inimitabile. 0 no? «No, ma certo se avessi un po' di salute in più...». Gli occhi del vecchio combattente si illanguidiscono, eppure basta chiedergli se nel futuro di Andreotti ci sia la pensione, perché si rianimi di colpo: «Per lui c'è un futuro da grande saggio». Ma come, non aveva detto che i capi de devono andare tutti a casa, nessuno escluso? «Sì, ma Andreotti potrebbe fare il presidente del partito». Evangelisti si ferma. Forse ha il sospetto di aver offerto un indizio sui progetti segreti dell'amato Giulio e così fa subito un'aggiunta, che è anche un tocco dell'antica classe: «Presidente della de, magari non subito...». Fabio Martini «Ma i suoi parenti che fan politica valgono poco: suo genero è moscio e il nipote è un galletto» Qui sopra dall'alto Andreotti e Fanfani A sinistra: Franco Evangelisti Sopra: Vittorio Sbardella A sinistra Ciarrapico

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