E BUZZATI CONFESSO' «SONO UN VERME»

E BUZZATI CONFESSO' «SONO UN VERME» E BUZZATI CONFESSO' «SONO UN VERME» «Per questo motivo ho scritto "Un amore"» UANDO un pomerigM tk gio del 1963, inclinan- i Bi te alla sera, Dino BuzH zati presentò alla liH breria internazionale I Einaudi in galleria H Manzoni a Milano il H ■ suo romanzo Un amowH» re pubblicato da Mon\lj dadori, una signora azzardò una domanda che poteva suonare come una protesta per un tradimento subito: «Come ha potuto lei che ha scritto un romanzo come II deserto dei Tartari scriverne uno come Un amore!». La signora appariva, più che emozionata per la propria audacia, addolorata per la sorte dello scrittore evidentemente amato. Ma Dino Buzzati non batté ciglio, raccolse candidamente la sfida, dichiarando: «Perché io sono un verme». Non dimenticherò mai la scena. Il povero Vando Aldrovandi che dirigeva la libreria e tutta la gente, le signore soprattutto che gremivano lo spazio abbastanza esiguo, il loro palese stupore e, in contrasto, quell'atteggiamento di Dino Buzzati così distante un poco da tutti, quasi provenisse da un altro pianeta con usi e costumi diversi. Un atteggiamento che aveva piuttosto ingannato, perlomeno sviato i suoi colleghi quando il 10 luglio 1928 Dmo Buzzati era stato assunto in cronaca dal Corriere della Sera. Suo padre, Giulio Cesare Buzzati Traverso, veneziano d'origine, aveva insegnato diritto internazionale all'università di Pavia e alla Bocconi a Milano e aveva coUaborato a lungo al Corriere, sua madre Alba Mantovani, anche lei veneziana d'origine, era la sorella dello scrittore Dino Mantovani, autore de II poeta soldato, biografo critico di Ippolito Nievo, e a sua volta collaboratore del Corriere. Nato nel 1906 a San Pellegrino, presso Belluno, in una casa di famiglia, Dino Buzzati era restato orfano di pa dre a quattordici anni, aveva studiato al Parini di Milano e si era laureato in legge con una tesi sulla natura giuridica del Con cordato. Aveva prestato servizio militare prima come allievo uffi ciale, poi come sottotenente tra il 1926 e il 1927. Al Corriere era approdato quasi in prosecuzione del servizio militare. Il primo giorno della sua vita in via Solferino aveva annotato nel diario: «Oggi sono entrato al Corriere, quando ne uscirò? - Presto, te lo dico io, cacciato come un cane» Nel girone della cronaca «Il Corriere era l'Italia, ma la cronaca del Corriere era Milano. Roma con la politica, i ministeri, la grande mappa deu'effimero che si muove intorno a essa: Milano, capitale morale, città seria, fatti va, operosa, pratica. Di questa realtà milanese la cronaca del Corriere è sempre stata lo spec chio fedele», scrive nel suo ubro Corriere primo amore, edito da Bompiani nel 1984, Gaetano Afeltra, irriducibile testimone di via Solferino. «Un solo giorno dell'anno, il 1° maggio (a Natale, a Capodanno e a Ferragosto allo ra si lavorava regolarmente), Mi lano e i milanesi, privati della cronaca e dei necrologi del Corriere, si sentivano in qualche modo isolati dal resto del mondo; e finivano per dire, come scusan dosi: "Non so, oggi non c'è il Corriere". Uno dei più straordinari estensori di cronaca fu senza dubbio Dino Buzzati...». La cronaca occupava uno stanzone al primo piano di via Solferino. Tra le due caste che componevano la cronaca, gli estensori e i reporter, Dino Buz zati era stato assegnato alla pri ma. La mansione di estensore è scomparsa da anni nel giornalismo italiano. è stata rimossa anche e soprattutto per motivi sin dacali in quanto sarebbe stata a significare una specie di discri minazione razziale tra chi era in caricato di raccogliere notizie e voci, scarpinando in ogni luogo della città e chi, in sede, era inca ricato di scriver quelle notizie e voci, mettendole nel migliore ita liano possibile. Oggi l'analfabeti smo di ritorno ha cancellato per sino il ricordo di quella mansio ne. Ma allora Dino Buzzati l'ave va presa molto sul serio, regi strando in grossi mastri le varie notizie e voci passate e adornan do quelle pagine di disegni punti gliosamente infantili come la sua calligrafia. Questa candida dedizione a un lavoro che agli ambiziosi impazienti di arrivare poteva apparire gregario e oscuro non aveva preparato i colleghi all'annuncio che un giorno Orio Vergani aveva fatto con una riserva di incredulità in gola: «Sapete che Cretinetti scrive un romanzo?». Quel Cretinetti non era affatto dispregiativo, era solo una citazione del nome d'arte con cui era stato ribattezzato in Italia il comico del cinema muto francese André Deed, al secolo André Chapuis, scritturato dall'Itala Film per una serie di filmetti quali Cretinetti alla guerra, Cretinetti si vuol suicidare. Cretinetti re dei poliziotti, Cretinetti e le donne e Cretinetti mannequin che avevano fatto furore qui da noi prima dell'avvento delle comiche.finali americane. Certi estri, certi mutismi, certi stupori dell'elegante, compito e persino cerimonioso Dino Buzzati capace addirittura di indebitarsi per aiutare i più bisognosi sapevano un poco della comicità stralunata di André Chapuis. Il romanzo di cui aveva parlato Orio Vergani, e che era stato fatto pervenire all'editore Treves dal capocronista Ciro Poggiali, sedotto dall'arte acerba, ma già inconfutabile del suo estensore, s'intitolava Bàrnabo delle montagne. Era uscito nel 1933 presso una combinazione editoriale affollata, Treves-Treccani-Tuminelli, che un giorno sarebbe diventata solo Garzanti. E nel 1935 presso la stessa combinazione editoriale era uscito un secondo romanzo II segreto del Bosco Vecchio, breve come il primo, intriso come il primo d'aria di boschi, montagne, leggende dolomitiche tradizionali o inventate e sfoghi surreali e come il primo passato quasi inosservato se non dai colleghi. Alla notorietà Dino Buzzati sarebbe arrivato solo con il terzo romanzo, anzi, per l'esattezza, con la seconda edizione presso Mondadori del suo terzo romanzo perché la prima edizione de II deserto dei Tartari, uscita nel 1940 presso Rizzoli nella collana «Il sofà delle Muse» diretta da Leo Longanesi, aveva avuto più che altro un successo di critica. Dino Buzzati l'aveva immaginato durante le lunghe notti al Corriere in coppia con Emilio Radius, quando era stato passato dalla cronaca alle province, a rabberciare le note dei corrispondenti, e gli capitava di pensare al futuro. Lo testimonia l'intervista concessa a un collega del giornale Alberico Sala come introduzione all'Oscar Mondadori del 1966 definitiva consacrazione a best-seller de H deserto dei Tartari: «I mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo altri uomini, alcuni della mia età altri molto più anziani, i qua- li andavano, andavano trasportati dallo stesso lento fiume...». Dino Buzzati tornava all'alba nella casa dove viveva solo con la madre e sarebbe vissuto sino alla di lei morte nel 1961, e provava a dar corpo sulla carta a quei pensieri. Prima di delegare la logorante attesa della «grande occasione» al tenente Giovanni Drogo nella Fortezza Bastiani, l'aveva vissuta in proprio nella redazione di via Solferino e, se l'aveva alla fine delegata, era stato per «esemplificare il tema della speranza e della vita che passa inutilmente con una maggiore evidenza perché la disciplina e le regole militari erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione giornalistica». E poi, ed era la sua esplicita confessione, anzi professione di fede per «il fatto che la vita militare corrispondeva alla mia natura». «Buzzati è stato il personaggio più generoso passato dal Corriere in cent'anni. Abbiamo usato appositamente la qualifica di "per¬ sonaggio" perché egli - naturalmente, senza pose né esibizioni fu davvero un personaggio di originali abitudini», afferma nella sua monumentale Storia del Corriere della Sera edita da Rizzoli nel 1976 Glauco Licata, storico di via Solferino. «Vi fu un Buzzati alpinista, uno cinofilo, uno famoso per l'eleganza e le lobbie, uno per la passione delle automobili Mercedes, uno bohémien, uno pittore: e tutti concorrenti a comporre un Buzzati unico, divo senza saperlo. Modesto, schivo di onori, Buzzati giunse all' "assurdo", così i colleghi definirono l'episodio, di non avvertire il giornale, nel 1939 d'essere stato proposto in Africa Orientale per la medaglia d'argento al valor militare...». Inevitabilmente, si torna alla predilezione per la vita militare di Dino Buzzati. Se ne era saputo qualcosa in via Solferino solo per una lettera confidenziale di Piero Saporiti, direttore dell'agenzia Stefani in Etiopia, al direttore del Corriere Aldo Borelli. Dino Buzzati era stato proposto dal tenente colonnello Morigi comandante il 4° Gruppo squadroni per la medaglia d'argento con la motivazione: «Per pura passione senza obblighi di sorta volontariamente seguiva un reparto nelle operazioni di polizia coloniale. A Tullunditù il 20 luglio alla testa di un plotone di cavalieri si gettava in una carica disperata contro forze soverchiami trincerate cooperando con altri reparti al loro annientamento. Agli stessi ascari fu esempio di valore e di spirito di sacrificio». Questo era l'antefatto della dichiarazione di Dino Buzzati, militare nell'animo e anche nei sogni più sfrenati, in quella sera incipiente del 1963 alla libreria internazionale Einaudi in galleria Manzoni. Con il solito candore Dino Buzzati riconosceva come sua colpa l'apparente diversità tra la storia di Giovanni Drogo, il militare protagonista e vittima de II deserto dei Tartari condannato ad attendere all'infinito la «grande occasione» per mettersi alla prova e defraudato, invece, dalla morte per malattia, e la storia di Antonio Dorigo, l'architetto di mezza età, condannato a diventar succubo di una ragazzina-squillo incontrata in una casa d'appuntamenti e furiosamente da lui amata sino alla rovina totale. Il mistero delle prostitute «La prostituzione forse lo attraeva proprio per la sua crudeltà e vergognosa assurdità. La donna, forse a motivo dell'educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera, con una donna non era mai riuscito ad avere la confidenza che aveva con gli amici. La donna era sempre per lui una creatura di un altro mondo vagamente superiore e indecifrabile», racconta Dino Buzzati di Antonio Dorigo. «All'idea che ima giovanetta di diciott'anni, per guadagnare quindicimila lire, andasse a letto senza preamboli di sorta, con un uomo mai visto né conosciuto, e si lasciasse godere l'intero corpo, partecipando anzi con slanci lussuriosi più o meno simulati, a questa idea Dorigo provava un moto di incredulità e rivolta. Come se ci fosse dentro qualcosa di completamente sbagliato. Da questo pensiero aspro e dolente, da questa incapacità di ammettere nasceva però il desiderio...». Eppure le storie di Antonio Dorigo e di Giovanni Drogo erano solo apparentemente diverse. Dopotutto anche per Antonio Dorigo si trattava di una «grande occasione» arrivata dopo una lunga attesa simile a quella di Giovanni Drogo alla Fortezza Bastiani. La scoperta di riconoscersi giovane a cinquantanni nella giovinezza corrotta, ma autentica di una ragazzetta invereconda. Quella «grande occasione» Antonio Dorigo non aveva potuto lasciarsela sfuggire come l'inviato speciale in Etiopia. Dino Buzzati nel 1939, ancora prima dell'entrata in guerra dell'Italia, una specie di turista in giro con la macchina fotografica a tracolla, non aveva potuto lasciarsi sfuggire la «grande occasione» di guidar la carica, di metter la vita in campo. Ancora una sfida. Il candore di Dino Buzzati non fu mai inconsapevole del rischio, ma non ebbe mai bisogno di menzogne. Oreste del Buono Aspettava i «tartari» ogni giorno nella redazione del «Corriere della Sera» e aWalba tornava nella casa dove viveva solo con la vecchia madre Dino Ruzzati (a destra) con Alberto Mondadori