L'Europa che ci meritiamo

L'Europa che ci meritiamo I pionieri dimenticati di un'intesa sopra le frontiere L'Europa che ci meritiamo Francesi e tedeschi uniti nel '46 D PARIGI URANTE la campagna per il referendum sul trattato di Maastricht, che ha animato l'estate politica della Francia, è emerso con frequenza un tema: la paura della Germania. Alcuni partigiani del «sì» sostenevano che bisogna rinsaldare la camicia di forza che terrebbe a freno le eventuali tendenze espansionistiche tedesche; altri sostenevano che il suo dinamismo dev'essere messo al servizio della Comunità. La maggior parte dei sostenitori del «no» si sono chiusi nei timori alimentati dai ricordi del passato come dalle incertezze del futuro. Gli uni e gli altri hanno posto più o meno esplicitamente il problema negh stessi termini: l'antagonismo fra ciò che rimane delle due sovranità: quella francese considerata come se disponesse ancora di un ampio campo d'azione; quella tedesca come se aspirasse a infrangere l'apparato diplomatico ed economico creato, per contenerne la forza, all'indomani della guerra. Frangois Mitterrand si è dichiarato «personalmente umiliato» da queste argomentazioni di cui si è quasi scusato con il cancelliere Kohl. L'analisi dei risultati del referendum ora dimostra che gli elettori francesi erano infinitamente meno sensibili a quel tema di quanto credesseigli uomini politici e i commentatori. Il 30 per cento degli elettori ha indicato come motivo della scelta la paura della Germania, con la percentuale più forte (40 per cento) tra i partigiani del «no», meno forte (21 per cento) tra i sostenitori del «sì». Personalmente appartengo alla schiera dei francesi che dal 1950 aspettavano di poter votare un «sì» che avrebbe confermato il rovesciamento completo dei rapporti tra Francia e Germania, quel «sì» che fin dal primo dopoguerra fu tenacemente preparato da minoranze oggi confinate nell'età della pensione o scomparse. La storia ufficiale data «il riawicinamento franco-tedesco» all'alleanza tra il generale de Gaulle e il cancelliere Adenauer, a partire dal 1958, come se la Francia della seconda metà del secolo non avesse altro punto di riferimento che de Gaulle. E' vero che la decisione pohtica, l'impulso degli Stati si misero in moto nel 1960, ma nulla sarebbe stato possibile senza la lenta trasformazione degli spiriti cominciata dal 1945 in ambienti e gruppi di giovani usciti dall'esperienza diretta della guerra. Proprio nella zona d'occupazione francese in Germania, disegnata lungo il Reno, tra Basilea e Coblenza, si incontrarono quei gruppi, che provenivano da esperienze molto diverse. Prima di ritrovarsi insieme volontari nella prima armata francese che aveva combattuto fin dal 1944, alcuni erano stati nei movimenti clandestini, altri nelle organizzazioni giovanili del governo di Vichy, altri ancora avevano fatto parte della Resistenza intellettuale. Molti erano di formazione cattolica. Certi, infine, non meno decisi e determinati, erano usciti dai campi di concentramento nazisti. Qualcuno era figlio di ebrei tedeschi emigrati dopo il 1933 e naturalizzati francesi. Nessuno aveva partecipato, direttamente o ^direttamente, al collaborazionismo negli anni in cui la Wchrmacht occupava Parigi. Nessun riferimento utile poteva essere ricavato dall'esperienza della prima occupazione francese della Germania, tra il 1919 e il 1925. In quegli anni si era trattato di una pura pohtica di coercizione, sottolineata in particolare dall'ingresso delle truppe d'occupazione nella Ruhr nel 1923. Il ricordo restava vivo nella popolazione tedesca: i più anziani ne erano ancora terrorizzati. Era un problema di generazioni: si ritrovavano faccia a faccia combattenti di venti-trentanni la cui esistenza era stata trasformata dalla guerra. I tedeschi smobilitati, disperati per le rovine e la miseria, impotenti di fronte ai compiti della ricostruzione. I francesi, essi stessi feriti dalla disfatta del '40, erano coscienti che il ritorno al combattimento non li rendeva vincitori a pieno titolo: in ogni caso il loro Paese depredato non avrebbe avuto ancora a lungo mezzi pro¬ porzionati alle ambizioni. Gli uni e gli altri s'incontravano all'insegna di una sensazione molto forte della loro comunanza di destini, dell'analogia, meglio dell'identità, dei problemi, con la stessa volontà di non ripercorrere la strada che tra il 1920 e il 1930 aveva favorito la crisi di Weimar e l'ascesa di Hitler. Molto presto si rivelò quanto fosse iniquo il concetto di «responsabilità collettiva», imposto dalla propaganda di guerra e che in quegli anni costituiva la dottrina ufficiale dei vincitori. Naturalmente non si trattava di nascondere i crimini, o di relativizzarli, ma di comprendere da quale dottrina provenissero evitando di cadere in un razzismo alla rovescia. Distinguere il nazionalsocialismo come nemico principale, dissociarne il popolo tedesco come tale era il punto di svolta decisivo che avrebbe garantito la realtà della mano tesa a interlocutori tedeschi appena usciti dai campi di prigionia. Il governo militare francese decise di innovare in modo empirico, andando al di là dei suoi principi. Ufficialmente erano proibiti i contatti con la popolazione tedesca; in pratica i rapporti ripresero molto presto sotto l'egida di una «direzione della gioventù e dello sport» che promosse incontri prima a livello ufficioso, poi organizzati apertamente. Nel 1946, ad esempio, uno di questi incontri si tenne a Royaumont, presso Parigi. I partecipanti tedeschi, provenienti dagli ambienti cattolici, vi furono portati clandestinamente non avevano il diritto di attraversare la frontiera - con mezzi militari francesi. I più presero in quell'occasione un orientamento che in seguito non si sarebbe smentito. Qualche anno più tardi erano alti funzionari o uomini politici del governo federale. L'impegno dei francesi dediti a queste operazioni s'ispirava al titolo d'un celebre articolo pubblicato nel 1947 dalla rivista Esprit di Emmanuel Mounier: «Avremo la Germania che ci saremo meritata». L'autore era Joseph Rovan, oggi professore emerito della Sorbona, di origine ebreo-tedesca, poi convertitosi al cattolice¬ simo. Dopo aver partecipato attivamente alla Resistenza nella regione di Lione, era stato catturato e deportato nel campo di Dachau. Agli stessi concetti si ispirava Alfred Grosser, celebre politologo nato a Francoforte, diventato francese prima della guerra, anch'egli di origine ebraica. Grosser fu il fondatore, con la madre, del «comitato per gli scambi con la nuova Germania», il cui nome era un programma. La filosofia alla quale si ispiravano, e che le loro forti personalità garantivano, in tempi in cui anche soltanto parlare dei contatti con la Germania suscitava sospetti, fu alla base dell'evoluzione pohtica. Quella filosofia rifiutava il deterrmnismo storico, annullava i postulati dello sciovinismo, significava che francesi e tedeschi dovevano rimettere in discussione le condanne reciproche nelle quali erano nati, che non c'era alcuna ragione per il principio del nemico ereditario; quegli uomini non si ispiravano ad alcun calcolo politico, né ad alcuna volontà di potenza. L'obiettivo non era porre le basi per un blocco franco-tedesco che dominasse l'Europa, ma affrontare la strada di una rieducazione comune, della comprensione, dell'apertura gli uni agli altri. Glosserò e Rovan erano dei moralisti. La cosa sorprendente, e anche meravigliosa, fu che essi misero in atto una visione che poteva apparire utopica. All'epoca, all'interno dei gruppi di giovani e negli incontri tra intellettuali, nessuno pensava che si trattasse di utopie, perché il ragionamento procedeva da convinzioni elementari. Ciascuno assumeva le colpe del proprio popolo, ognuno sapeva che l'altro popolo era salvato da uomini giusti. Si delineò, a piccoli passi, una riforma spirituale e morale, che trovò il suo sbocco nelle prime tappe dell'unità europea. La Comunità del carbone e dell'acciaio, poi le Comunità di Bruxelles, ebbero tra i primi animatori uomini provenienti da quei gruppi. Trasformarono una mistica in pohtica? Fecero una pohtica senza smettere di riferirsi a quei primi anni in cui avevano imparato che l'Europa passava anzitutto per il superamento dei loro nazionalismi più intimi. Sono passate le generazioni. L'evidenza dell'evoluzione demografica ha demolito il mito della Germania «eterna». Al di là del «sì» a Maastricht rivedo quegli anni in cui di doveva disimparare a considerare i tedeschi come «crucchi», ma come compagni nella solidarietà tra sopravvissuti di una Europa che cercavamo tutti. Che sette francesi su dieci non temano più la Germania è il risultato a lungo termine di quel rifiuto del 1946. «Avremo la Germania che ci saremo meritata», questo principio rimane valido oggi per tutti i popoli della Comunità. A una condizione: se l'alleanza franco-tedesca è il motore principale del movimento verso l'unità europea, non deve essere circondata da un orgoglio politico che fomenterebbe un nuovo nazionalismo e una volontà di potenza intollerabile per gli altri popoli della Comunità. Jacques Nobécourt Giovani dei due Paesi agli incontri clandestini (su automezzi militari) Il generale De Gaulle presidente dal '58 al '69 I cancelliere Kohl (sopra) e, a sinistra, Adenauer Jacques Nobécourt Sostiene: «Il ravvicinarsi di Francia e Germania comincia prima dell'alleanza fra De Gaulle e Adenauer. Ha radici nel dopoguerra»