Così i Salvo tenevano in pugno Palermo di Francesco La Licata

Così i Salvo tenevano in pugno Palermo Abili a manovrare i politici, furbi nella scelta degli amici. Finché Buscetta non li ha traditi Così i Salvo tenevano in pugno Palermo Determinanti l'accordo con i Corteo egli agganci con «chi conta» a Roma PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Nella gestualità palermitana c'è un modo, diciamo trasversale, per esprimere lo sbigottimento, la paralisi da terrore: le mani nei capelli. L'usano nobiluomini e gente comune, politici e affaristi, intellettuali e sottoproletari. Ieri mattina, aprendo i giornali, mezza città si è presa la testa in mano. Ignazio Salvo, pure fisicamente sconosciuto ai più, da sempre la sovrastava come figura quasi mitologica e incombente. Magari poteva accadere che l'esattore entrasse in un bar o al ristorante senza essere riconosciuto. Ma era impensabile che il suo nome, pronunciato anche soltanto nell'ufficio dell'ultimo sportello bancario di periferia o nella sala d'attesa della più scalcinata delle finanziarie, non evocasse sentimenti di rispettosa osservanza. I Salvo, Ignazio e il cugino Nino, più fortunato per essere riuscito a morire nel suo letto sebbene toccato dall'affronto di una condanna per mafia, i Salvo - è indubbio - hanno scritto la storia recente di Palermo. Protagonisti della politica, degli affari, ed anche di quell'oscuro intreccio che ha lastricato di sangue le strade di mezza Sicilia. Prototipi di una società vischiosa, indefinita, dove non v'è nulla di certo, dove il bianco e il nero non esistono perché sfumati in un grigio avvolgente e fumoso. Inventori, i potenti esattori di Salemi, di un sistema di potere «siciliano» che sta in piedi da 40 anni. Non tutto mafioso, non sempre esclusivamente politico, inquinato certamente, spesso corrotto, ma quasi sempre pronto all'autodifesa collettiva con motivazioni che rimandano a Roma, quando si trat¬ ta di individuare responsabilità. C'era un altro, a Palermo, il cui nome rappresentava una sorta di passepartout per ogni accesso. Si chiamava Salvo Lima. Era amico di Nino e Ignazio Salvo, molto amico. Insieme, per anni, avevano fatto il bello e cattivo tempo. In nome loro si sono cementate alleanze politiche, per loro volontà sono caduti governi regionali. Qualcuno ha perso il seggio e il privilegio di essere chiamato onorevole. Come è possibile? Come è possibile che due cugini, nati e cresciuti a Salemi, neppure molto colti, senza frequentazioni nobiliari, siano riusciti a diventare motore, cuore e cervello della delicatissima macchina siciliana? Chi sa, non esita a rispondere. I soldi. Sì, sono i soldi che hanno fatto dei Salvo un mito. Fino a piegare, per qualche tempo, la ragion politica ed anche quella mafiosa, al loro progetto. Un calcolo perfetto, per lungo tempo vincente perché poggiato su una semplice intuizione: bisognava coinvolgere tutti. Che offesa, quel cadavere lasciato a due passi dalla «Zagarella», l'albergo del mistero, dove sono passati affaristi e deputati, mafiosi e potenti, agenti segreti in cerca di notizie e provocatori. Oscuri avventurieri come quel Bou Chebel Gasshan, trafficante libanese che predisse, senza essere preso sul serio, l'autobomba contro Chinnici. Grande albergo della «Zagarella», proprietà Salvo naturalmente, un altro nome che nell'immaginario palermitano evoca fantasmi, congiure e incontri riservati. Il grande esattore per terra, immobile. Lo guardi e ti viene in mente Lima, bocconi sul viale alberato di Mondello. La caduta degli dei, fine di un impero. Fine di una simbiosi durata decenni. Ne è passata di acqua sotto i ponti. Quanto sembra distante il tempo del «massimo splendore», quando i Salvo salpavano da Porticello su uno yacht da sceicchi, le pareti delle cabine tappezzate da Matisse e Van Gogh e lo champagne a fiumi. Era la fine degli Anni Sessanta. Nino e Ignazio non erano più ignoti cittadini di Salemi. Nino, in particolare, aveva fatto il salto. Con un matrimonio azzeccato: Franca Corteo, figlia di Luigi, esattore da sempre, ma con interessi limitati alla provincia. Lo «sbarco a Palermo» sarà merito dei cugini. Come? La storia è poco chiara e legata alle buone attitudini politiche di Ignazio. Non estranea alle amicizie che i Salvo potevano vantare nell'ambiente dell'«onorata società». Legami ereditati sia da Nino che da Ignazio, figlio di «don Luigi», boss di Salemi, come lo definivano ufficialmente i carabinieri. Fu il Milazzismo la fortuna dei cugini. Un governo regionale un po' bastardo, un misto di destra e sinistra che riuscì a mandare all'opposizione la de. Che epoca, quella: anni '58-'62. Chi sa ricorda il clima «spensierato» che si respirava a Palermo. I CorteoSalvo, ottenuto l'appalto per la riscossione delle tasse, producono soldi come fossero noccioline. E pensano alla creazione di un sistema. Sanno che il Milazzismo non potrà durare in eterno e che dovranno fare i conti con il mostro a due teste siciliano: la politica e la mafia. La capacità di corruzione dei cugini è praticamente senza limite. Prima nutrono gli amici del governo bastardo. Che notti al Grand Hotel delle Palme. Signorine e champagne per una classe politica improvvisamente baciata dalla fortuna. E quanti tavoli verdi. La corruzione passava per le carte da poker. Come disobbligarsi di un favore ricevuto, senza urtare la suscettibilità dell'onorevole? Una serata fortuna¬ ta e tutti restavano contenti, corrotti e corruttori, vincenti e perdenti. Ma l'obiettivo vero restava quello di condizionare l'Assemblea regionale. Tutta: dai democristiani ai comunisti, a quel tempo fieri oppositori. Per la de non c'erano problemi: Ignazio, per lungo tempo notabile del partito, pensava a tutto. I soldi facevano il resto: nasceva un sistema di potere trasversale destinato a governare la Sicilia col consenso di tutti. Un sistema - il cosiddetto consociativismo - che, nel pei e ora nel pds, è stato al centro di una lacerante polemica. Leggi e leggine per i cugini di Salemi. Miliardi che, reinvestiti in attività finanziate dalla Regione a costo zero, riproducevano miliardi. E la mafia? Anche su quel fronte i cugini si muovevano. Amici per la pelle di don Stefano Boutade, in buoni rapporti col «papa» Michele Greco (al quale persino prestano una Merce¬ des 500), quasi «fratelli» con Tommaso Buscetta. Sì, i cugini erano proprio della «famiglia», tant'è che quando i «corìeonesi» decisero di «stuzzicare» la mafia palermitana sequestrarono Luigi Corteo, suocero di Nino Salvo. Volevano venti miliardi, nel 1976. L'ostaggio morì nelle mani dei rapitori. Successe il finimondo: morti ammazzati a dozzine. Fu l'inizio della fine: piano piano il gruppo di potere, il famoso comitato d'affari palermitano, andò verso la decomposizione. Coi tempi della mafia, lenti ma inesorabili. Il giudice Falcone fece il resto, incastrando i cugini con l'aiuto di Buscetta pentito. Morto Nino, Ignazio sembrava defilato. Ma certi legami non si tagliano mai. Per ucciderlo non hanno usato il tritolo: quello è riservato ai nemici di Cosa Nostra. Il codice, per gli «amici», prevede la lupara. Francesco La Licata Molte decisioni per il governo della regione sono state prese nella loro villa E nella gente incutevano lo stesso rispetto di Lima e Vito Ciancimino Nino Salvo dopo un interrogatorio del giudice Falcone nell'84