Carcere, notizie dall' inferno di Gaetano Scardocchia

Carcere, notizie dall' inferno Esce negli Stati Uniti un libro sconvolgente: vita e morte nel penitenziario di Angola, in Louisiana Carcere, notizie dall' inferno / racconti del boia, lo stupro come potere NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO Tutti gli investimenti sociali, in America, sono stati ridotti, meno uno: la costruzione di carceri. Ormai la società americana spende più soldi per l'arnministrazione penale che per la pubblica istruzione. Ma pochi sanno, e pochissimi vogliono sapere, cosa succede dietro le mura e le sbarre delle prigioni: come si vive e come si muore, quali soprusi e quali ingiustizie vengono commesse in un mondo che resta imperscrutabile perché chi lo conosce è abituato a tacere mentre chi ne parla lo conosce poco e per vie indirette. A scuotere la coscienza degli americani che vogliono sapere è un libro appena uscito. Si intitola Life sentences (Ergastoli), pubblicato da Times Books, una sussidiaria della Randon House: è la raccolta di 24 articoli apparsi su una rivista carceraria della Louisiana. Non sono scritti di sociologi e di criminologi, ma di detenuti in carne e ossa, che offrono una straordinaria testimonianza della loro esperienza. Diciamo subito che la lettura di questi testi suscita un'emozione profonda, nella quale l'attrazione si mescola al disgusto, perché ci troviamo di fronte a una testimonianza che viene da un universo di crudeltà ai confini tra la vita e la morte. TheAngolite è la rivista del penitenziario di Angola, in Louisiana, la più grande e la più famigerata prigione d'America, detta «l'Alcatraz del Sud». Il direttore, Wilbert Rideau, un omicida condannato alla sedia elettrica nel 1961, ha passato undici anni nel «reparto della morte», dove ha imparato a leggere e scrivere, prima che la pena gli venisse commutata in ergastolo. Il vicedirettore, Ron Wikberg, ha scontato 23 anni per omicidio ed è stato rimesso in libertà un mese fa. I loro scritti provano che anche nell'inferno la mente umana può volare alta sopra gli orrori. Invece di rassegnarsi all'abbrutimento dell'ambiente - che qui raggiunge i limiti estremi Rideau, Wikberg e compagni hanno cercato il riscatto attraverso lo studio e la conoscenza di quell'angolo di mondo nel quale il destino li ha portati: una colonia penale alle foci del Mississippi, con oltre cinquemila detenuti e ima lunga storia di violenza e di ferocia. Fino a pochi anni fa, la fustigazione era il castigo ufficiale. Centinaia di detenuti morivano ogni anno in risse di coltello. Angola era la più sanguinaria prigione d'America, al punto che trentasette carcerati, nel 1951, si tagliarono simultaneamente i tendini di Achille per protestare contro le loro condizioni di vita, un gesto che sconvolse l'America e provocò un'inchiesta governativa. L'aspetto straordinario degli scritti di The Angolite è che non si tratta di letteratura carceraria di tipo autobiografico, alla Caryl Chessman per mtenderci, ma di moderno e rigoroso giornalismo. Rideau e Wikberg non dicono mai una parola di se stessi, anche se qua e là fanno sommessamente trapelare i loro sentimenti di cronisti coinvolti negli eventi che narrano. Questi reporter in catene raccontano storie umane, indagano sul passato del penitenziario, rovistano nei suoi archivi, intervistano i secondini, i condannati a morte, il boia. Sempre attenti a rispettare le regole: controllo della notizia, citazione della fonte, uso onesto delle virgolette. Ed una prosa tesa e limpida, intessuta di fatti e di voci, senza mai un grido o un'esclamazione. Del resto, la loro rivista è sottratta a ogni forma di censura, ma a un patto: «Che tutto ciò che pubblica sulla vita della prigione - recita la direttiva delle autorità - corrisponda a verità». Il saggio più bello si intitola «Conversazione con i morti» e nasce da una brillante idea giornalistica. Wilbert Rideau cerca tra le migliaia di ergastolani di Angola quelli che egli chiama «i dimenticati». Si tratta di detenuti che, o perché ignoranti o perché si sono ormai perfettamente adattati alla vita carceraria o perché privi di qualsiasi aiuto esterno, non hanno mai presentato una domanda di clemenza, pur avendo il diritto a farlo poiché hanno scontato una parte notevole della pena. La grande maggioranza degli ergastolani, hi America, riesce prima o poi a riconquistare legalmente la libertà. Purché ne faccia richiesta e ci sia qualcuno nel mondo di fuori, un avvocato o un amico, che si sforzi di spingere la pratica attraverso tribunali e governatorati. Ma gli uomini che Rideau ci descrive sono già immersi in una solitudine senza scampo. Spesso non sanno leggere né scrivere e ignorano che esiste l'istituto della clemenza. Da anni non ricevono una lettera o una visita di un parente o un amico. Non hanno i soldi per pagare un avvocato. Forse hanno paura di una libertà che non riescono neppure a concepire e che non desiderano. A sua volta il sistema penale li ignora perché è strutturato in maniera da reagire all'iniziativa individuale. Ma questi individui sono ormai incapaci di prendere qualsiasi iniziativa. Indagando su uno di essi, Rideau scopre che il penitenziario ha perduto il suo fascicolo. Nessuno sa per quale reato quest'uomo è stato punito. E lui non ricorda più il suo passato perché è vecchio e la memoria gli si è annebbiata. Quando qualcuno di questi derelitti muore, viene sepolto nel cimitero del carcere, dove fino a poco tempo fa non c'erano lapidi a rammentare il nome dei defunti. Durante un funerale, Rideau coglie la battuta di un carcerato che si chiama Bill e che dice del morto: «Sia benedetta la sua ignoranza. Gli ha consentito di sopravvivere così a lungo. Noi invece sappiamo come stanno le cose. E perciò soffriamo». Quando uscì su The Angolite e fu ripreso dai quotidiani locali, l'articolo di Rideau suscitò una forte reazione emotiva in Louisiana. Il governatore concesse subito la grazia ad alcuni dei detenuti intervistati e il direttore di Angola nominò una speciale commissione per la ricerca dei «forgotten men», gli uomini di¬ menticati nei labirinti dell'immensa prigione. Un'altra serie di articoli ha contribuito all'abolizione della sedia elettrica che anche in Louisiana, dall'anno scorso, è stata sostituita da un'iniezione tossica, che a quanto pare provoca meno sofferenze. Raccogliendo capillari e inesorabili deposizioni di testimoni oculari e di medici che hanno eseguito autopsie sui cadaveri dei condannati, pubblicando per la prima volta le terribili foto del corpo di Robert Wayne Williams (giustiziato nel 1983) bruciato dalle scariche, Rideau e Wikberg hanno dimostrato che l'immobihtà della vittima sulla sedia elettrica non è dovuta a una presunta mancanza di dolore fisico, come molti credono, bensì alla contrazione spasmodica dei muscoli sotto l'azione della corrente elettrica: la vittima è paralizza¬ ta, ma non perde subito né la coscienza né la sensibilità. I due giornalisti-detenuti hanno intervistato a lungo il boia di Angola, Sam Jones, al quale dedicano un ritratto non privo di una sua cupa ironia. «(Arriva con discrezione alla casa della morte poco prima dell'esecuzione, e aspetta dietro il muro adiacente alla sedia elettrica mentre il prigioniero entra nella cella e viene legato alla sedia dalle guardie carcerarie. Attraverso una finestrella rettangolare, egli osserva il rituale e aspetta un cenno del capoguardia per spingere il bottone che scarica migliaia di volt di elettricità nel corpo della vittima. E poi se ne va segretamente come era arrivato. In fondo, gli si chiede ben poco: spingere un bottone, qualcosa che anche un bambino, un animale o perfino una macchina potrebbe fare...». Ma Jones dice di credere in quello che fa. Fino alle estreme conseguenze. «Se le chiedessero di uccidere il condannato con 71 pugnalate, lo farebbe?». «Se me lo chiedessero, lo farei». «Lo farebbe? Per quattrocento dollari?». «I soldi non hanno nulla a che fare con certe scelte». «Quale è la cosa più crudele che sarebbe disposto a fare?». «Qualsiasi cosa». «Getterebbe sul condannato la cera bollente, gli strapperebbe le unghie?». «Se lo Stato me lo chiedesse, lo farei». Tommy Macon, un altro detenuto, descrive in un minuzioso articolo il «reparto della morte» e i suoi sedici prigionieri in attesa di esecuzione. Un'attesa che può durare molti anni. Non escono quasi mai, se non per fare la doccia. Rinunciano a fare la passeggiata in cortile. L'aria aperta non li attrae. Non hanno hobby, non svolgono alcuna attività, parlano poco. Uno solo legge libri. Tutti gli altri guardano la televisione giorno e notte, oppure ascoltano la radio. La guardia del reparto, Steve Hamilton, dice che tratta i condannati con cortesia e rispetto: «Devo dire che si comportano bene, sono calmi. Con loro non abbiamo problemi». II grande problema di Angola (un problema comune a tutti gli universi carcerari per il quale nessuno ha trovato una soluzione) è il sesso, o meglio lo stupro che i detenuti più violenti praticano sui più deboli e sui più giovani. Le testimonianze raccolte da Rideau e Wikberg fanno accapponare la pelle. Nel mondo ultramaschilista della prigione, questa è l'umiliazione estrema per chi la subisce e la prova suprema di potere per chi la infligge. Alcuni «stuprati» impazziscono o precipitano nella depressione, ma i più - dopo lo choc iniziale - finiscono con l'accettare il loro ruolo, che talvolta è solo di «amante» dello stupratore, ma più sovente è di «prostituta» offerta dal boss agli altri detenuti. Sotto questo aspetto il penitenziario di Angola «è il più gigantesco bordello d'America». Un libro come Life sentences esce al momento giusto. Anzitutto è una lezione di grande giornalismo investigativo che arriva dalle tenebre di una cella della Louisiana, mentre l'opulento giornalismo di New York e di Washington si autoflagella nell'impotenza e nel pettegolezzo. E poi è un contributo prezioso, perché sofferto ed autentico, al dibattito che sta lacerando l'America sull'opportunità di costruire altre prigioni. Gli Stati Uniti hanno il primato mondiale in fatto di numero di carcerati: oltre un milione di persone. Per conquistare i voti degli elettori impauriti, i candidati dell'uno e dell'altro partito devono mostrare che sanno essere «duri» nel combattere il crimine. E dunque promettono più prigioni. Perfino un governatore «liberal» come Mario Cuomo si vanta di aver edificato nello Stato di New York più penitenziari di tutti i suoi predecessori. Nessuno contesta che la pena carceraria sia un indispensabile strumento di giustizia. Ma le statistiche provano che la moltiplicazione delle prigioni non ha ridotto la criminalità. E una società non può incarcerare una quota sempre alta della sua popolazione senza porsi il problema dei costi economici stratosferici che una simile politica comporta, oltre che della sua meffìcacia sociale, per non dire di peggio. La prigione è un castigo. E chi lo merita è bene che lo subisca. La prigione protegge la società in quanto tiene sotto chiave gli individui più pericolosi. Ed anche questo può essere vero, se la selezione è fatta con giudizio. Ma per tutto il resto, non facciamoci illusioni. Alla domanda se l'esperienza carceraria può «migliorare» un individuo, Wilbert Rideau risponde: «Sì, se questo individuo è capace di trascendere la sua esperienza, ossia se ha la determinazione di un fanatico, l'abilità di un politico e le virtù guerriere di un vecchio mercenario». Gaetano Scardocchia I sepolti vivi, l'ala della morte, i «prostituti», la sopravvivenza Vita e morte dietro le sbarre. I detenuti raccontano soprusi, aggressioni, umiliazioni