EVTUSCENKO

EVTUSCENKO Anteprima mondiale: alcune pagine di «Non morire prima della morte», il romanzo sul colpo di Stato EVTUSCENKO Gorbaciov nel giardino del golpe w tj NA farfalla si faceva bella I sul telefono muto delle comunicazioni governaI tive, muovendo appena le w I ali di color cioccolato a strisce bianche, oro e smeraldo a «occhio di pavone». Isolato dal resto del mondo proprio a opera di coloro di cui si fidava quasi ciecamente, il Presidente tirò un sospiro. Rifletteva: «Che cretineria, quella di Kruscév, di'attaccare l'arte d'avanguardia, perché residuo dell'influenza borghese. Le ali delle farfalle, un tramonto sul mare, la brina sul vetro della finestra: che altro sono se non arte astratta? Eppure sono così belli. Peccato che non ho mai tempo di guardare le cose con attenzione, senza fretta. Troppo lavoro. Non ho più visto né la natura, né la mia famiglia, né la gente che mi sta intorno. Neanche me stesso, a pensarci bene, e nemmeno la politica, anche se per un Presidente sarebbe d'obbligo... Forse sono caduto in trappola proprio per questo. Perché giudicavo tutto sulla base delle visite lampo in provincia, a volo d'uccello, in base ai rapporti che mi mettevano sul tavolo e alle "soffiate". E' possibile che sia questo il destino di tutti coloro che salgono al potere? (...). Sulla vetta la nebbia è sempre più fitta; non riesci a distinguere i chiaroscuri. E' male, perché in politica ci sono sfumature più delicate del riflesso delle ali di una farfalla. Scaliamo la vetta e guadagniamo in altezza, ma perdiamo i dettagli. C'è qualcosa che ci fa tutti uguali: Lenin e Stalin, Kruscev e Breznev e Cernenko. E anche me e Eltsin. Siamo tutti dei provinciali. Pensa un po' che dal 1917 nessuno dei governanti della Russia è stato un cittadino della capitale. Com'è che diceva Cechov? Il grido disperato: "A Mosca, a Mosca!" Non avevamo nulla da perdere, dovevamo solo conquistare Mosca (...). Ma, essendo rimasti dei provinciali, abbiamo idealizzato il potere, il centro, Mosca. Da lontano sembravano cose attraenti, splendenti, code di pavone. Ma quando ti ci aggrappi ti accorgi che è solo il didietro spelacchiato di una vecchia gallina che si regge appena sulle zampe, e in mezzo alle penne è piena di pulci, come questi cari amici che mi hanno tradito». «Nonnino, guarda cosa ho in mano!». La nipote più piccola abbracciò il Presidente mostrandogli il mazzo di carte che aveva avuto da una delle guardie del corpo, evidentemente dotata di idee originali in fatto di educazione. «Questo è il re, questo il fante e questa qui... oh, me la sono dimenticata». «Il dieci», suggerì il Presidente. «E cosa vuol dire, nonno?». «E' un modo di contare». Col dito indicò oltre la finestra aperta. «Vedi là, sul mare, quelle navi da guerra. Contiamole. Una nave, due navi... dieci navi...». «Ma nonnino, ci sono più di dieci navi», disse la nipotina. «E' vero, sono di più, addirit¬ tura sedici», rispose il Presidente. E pensò tra sé: «Non sono un po' troppe per una sola persona? Se il golpe vince si vanteranno di avermi impedito di fuggire. Se fallisce si giustificheranno: l'abbiamo difeso da un attacco. Doppia contabilità. Qual è il politico che non l'ha usata? Anch'io. Se non l'avessi usata sarei mai diventato Presidente?». La farfalla volò via dal telefono bianco che continuava a non dare segni di vita. Dal cortile si sentivano i rumori del pallone. Le guardie, finito il turno, giocavano a pallavolo. «Del resto, cosa dovrebbero fare, pregare? In fondo, per ora tengono bene - pensò il Presidente -. Ma, se gli daranno l'ordine di farmi fuori, magari di iniettarmi qualche robaccia che mi toglierà la coscienza, chissà se mi difenderanno (...). L'amore per la vita fa presto a trasformarsi in viltà e tradimento. Io per esempio volevo bene a Zdenek, il mio amico cecoslovacco con cui dividevo la stanza all'università. Quante notti passammo a dirci che così non si poteva più vivere. Ma la perestrojka l'hanno cominciata loro a Praga e noi l'abbiamo schiacciata con i carri armati. Allora non aprii bocca e conservai ben al riparo tutte le mie idee progressiste. Poi, a Praga, sorseggiai la birra Pilsen e mangiai salsicce con quelli che avevano tradito Dubcek e il mio amico Zdenek. Mi guardai bene dall'uscire allo scoperto. Anzi mi feci avanti, ma solo nella "linea generale". Perché, se non fossi stato attento, addio politica, perché la politica non sposa mai quelli che hanno lo stomaco troppo delicato. Chissà, forse sarebbe stato meglio per me. Non avrei avuto la felicità, si fa per dire, di diventare Presidente. Ma adesso che cosa sono? Un arrestato (...). C'è qualcosa di avvilente nella politica, perché per restare a galla qualcuno bisogna sempre, necessariamente tradire. (...). «Nonnino, stamattina la nonna ha detto alla mamma che siamo in prigione, e si è messa a piangere». «La nonna esagera». «Cosa vuol dire esagerare?». «Vuol dire che non tutto è così brutto come sembra», rispose il Presidente carezzando con tristezza i capelli della nipotina. Pensava: «Possibile che anche loro saranno costretti a vedere nella loro infanzia quello che noi abbiamo vissuto nella nostra?». (...). Il Presidente guardava silenzioso, oltre la finestra, le navi che galleggiavano al largo. (...). La paura della prigione: ecco quello che viveva in lui e in milioni di altri come lui, cresciuti in un Paese dove tanto la porta anonima della tua «isbà» contadina, quanto la porta di legno rosso con la targa dorata potevano essere apene ogni notte, e qualcuno poteva tirarti fuori dal letto e dichiararti kulako, sabotatore, trozkista o spia. (...). Forse era proprio per que- sta ragione che il Presidente, figlio di contadini, aveva scelto di fuggire da questa paura nascondendosi proprio dentro al potere, e aveva commesso l'errore di scambiare quel rifugio per un luogo sicuro. Il figlio di contadini aveva un'altra paura, speciale e segreta: che non si sapesse che era vissuto sotto l'occupazione. (...). Con due coetanei di Privolnoe era andato a vedere l'entrata dei tedeschi nel villaggio. Erano una nube ruggente che minacciava di inghiottirli. Gli altri due fuggirono, lui rimase a guardare. Erano i primi stranieri che vedeva. Quei soldati tedeschi potevano forse immaginare che quel ragazzino impaurito, che si stringeva al muro della casetta bianca, tossendo per la polvere sollevata dalle loro motociclette, sarebbe un giorno diventato l'uomo che avrebbe aiutato ad unire la Germania spaccata in due? All'epoca esistevano alcuni marchi. Il primo, il più terribile: «Nemico del popolo». Il secondo: «Parente di un nemico del popolo». Il terzo: «Prigioniero di guerra». Il quarto, «Vissuto sotto occupazione», non era così rovente come gli altri, ma la pelle puzzava comunque di bruciato e il segno rimaneva. Non era facile fare carriera con un segno del genere. (...). Eppure, nonostante la biografia «macchiata», il Figlio di Contadini, per miracolo, ricevette a diciotto anni l'Ordine di Lenin per aver lavorato sulla trebbiatrice del kolkhoz. (...). Quando presero a trascinarlo in giro nelle assemblee, come un simbolo d'oro vivente, il Figlio di Contadini era triste. Ma il Ragazzino Vissuto Sotto Occupazione chiese di essere ammesso al partito: non voleva attirare sospetti, né perdere la possibilità di «crescere». (...). Bisognava arrivare là dove il raggio d'oro dell'Ordine avrebbe potuto fendere come un laser la folla, desiderosa di arrivare al suo posto. E la tessera di membro supplente del partito, quadratino di rubino che luceva come le stelle del Cremlino, avrebbe detto, dall'asola della giacca: «Sono uno dei vostri». (...). Il Ragazzo Vissuto Sotto Occupazione si trasformò in un Apparatchik di Carriera, che tentava di chiudere il Figlio di Contadini in uno sgabuzzino senza finestre, per farlo tacere. (...). Il Figlio di Contadini, nipote di due arrestati, provò pietà per Kruscev quando lo fecero fuori senza cerimonie. In fondo aveva fatto uscire tanta gente dalle prigioni. Ma l'Apparatchik di Carriera non aveva tempo per la pietà e si affrettò a giurare fedeltà a Breznev. Diventò primo segretario regionale e assecondò i minimi desideri dei pezzi grossi che, dalla capitale, venivano nel suo feudo per curare con acque minerali e con fanghi i propri fegati. «Cosa sei diventato? - gli chiedeva con amarezza il Figlio di Contadini - non ti vergogni?». (...). «Sì - gli rispondeva l'Apparatchik - ma cosa ci posso fare? Devo arrivare fin lassù perché solo così potrò cambiare la Russia». (...). Così quello che un tempo era stato il Ragazzino Vissuto Sotto Occupazione divenne il Segretario Generale e, quindi, il nuovo zar di un enorme impero. Avrebbe potuto regnare incontrastato per almeno dieci-quindici anni senza cambiare nulla? Sì. Ma il Figlio di Contadini continuava a vivere anche dentro al Segretario Generale. (...). Alla vigilia del 50° anniversario della Vittoria nella seconda guerra mondiale, il Segretario Generale venne sommerso da lettere di veterani che gli chiedevano di restituire a Volgograd il nome di Stalingrad. (...). Quando, nel suo discorso per l'anniversario, nominò inevitabilmente Stalin come Comandante Supremo, i marescialli, i generali e gli ufficiali che avevano riempito il Palazzo del Cremlino, tintinnando di ordini e medaglie, balzarono in piedi. Nei loro occhi, ancora abbagliati da quel magico nome, ardevano lacrime di nostalgia. «Stalingrad! Stalingrad!», ascoltò il Segretario Generale nel minaccioso crescendo degli applausi. 0, forse, gli sembrò di sentirlo. «Dillo, dillo! Stalingrad! E noi ti seguiremo perfino nel fuoco!», raggiavano ipnotiche le medaglie sulle uniformi con i gradi stellati. «Se lo dico davvero, mettendo da parte il testo scritto? - balenò nella mente del Segretario Generale -. Il Politburo lo dovrà inghiottire, saranno perfino contenti». «Non osare! - il Figlio di Contadini gli sbarrò la strada -. Perché allora la strada per la prigione diventerà di nuovo breve per tutti». Questa pausa di un minuto decise il corso della storia per almeno un quarto di secolo. Quelle mani che applaudivano avrebbero potuto evocare dal nulla lo spettro in uniforme di Generalissimo, rivestendolo di carne, rigettando nel passato il Paese e tutta l'Europa. Il Figlio di Contadini vinse. Continuò a leggere il testo scritto reprimendo gli applausi nella sala e il Segretario Generale dentro se stesso. (...). Il Figlio di Contadini, dopo settant'anni di dominio della censura, proclamò la glasnost, pericolosa anche per lui, fermò la guerra in Afghanistan, liberò l'umanità dalla paura della terza guerra mondiale, liberò Sakharov dal confino e rischiò alle prime elezioni «quasi libere». Il Segretario Generale, rosso di collera, si arrabbiava con i giornalisti, interrompeva bruscamente l'accademico che s'impappinava alla tribuna, perdeva l'attimo in cui avrebbe dovuto usare la forza e ne approvava tacitamente l'uso là dove doveva evitarla, cercava disperatamente di salvare il partito, si spaventava all'idea di elezioni presidenziali a suffragio universale, si circondava di coloro che alla fine lo avrebbero tradito. Il Segretario Generale cacciò nella trappola di Crimea il Figlio di Contadini... «Nonno, la nonna sta piangendo di nuovo». La nipotina corse nello studio tenendo sempre in mano il mazzo di carte, dal quale non si voleva separare. «Perché mai dovrei considerarmi superiore?», rifletté il Presidente, sorridendo a se stesso. «Anch'io non volevo lasciare il mazzo di carte con i musi di sempre, ed ecco che ho perso. Le carte unte scivolano di mano ed è difficile mescolarle. Presto io e mia moglie non saremo più il Presidente e, come si dice in America, la first lady. Diventeremo semplicemente il nonno e la nonna. Se non avranno pietà di me, tanto meno risparmieranno lei. La odiano tanto, soprattutto le donne». «Nonno, gioca a carte con me. Giochiamo allo "stupido"», insisteva la nipote. «No, non voglio giocare allo "stupido". Andiamo invece a raccogliere fiori per la nonna». Il Presidente uscì nel cortile tenendo la nipotina per mano. E, all'improvviso, sentì dei passi alle sue spalle. I passi erano a tre-quattro metri di distanza. I passi non si avvicinavano ma nemmeno si allontanavano. I passi erano silenziosi ma fermi. La ghiaia scricchiolava appena sotto i piedi di un corpo maschile, pesante ma prudente, un corpo che non voleva essere udito ma non si preoccupava troppo di non fare rumore. «Ma è possibile che mi uccidano ora, così, alle spalle, in presenza della nipote?», si chiese il Figlio di Contadini. Ma il Presidente non si voltò. Voleva scegliere i fiori per la moglie. Sull'aiuola di fronte alla casa crescevano viole che sembravano musetti di minuscoli cagnolini, gladioli e altri fiori, di cui il Presidente non conosceva il nome. Ma non erano quei fiori che il Presidente avrebbe voluto regalare adesso: erano belli, ma troppo curati, viziati dalle mani dei giardinieri speciali, ciascuno dei quali aveva, probabilmente, un rango non inferiore a quello di capitano del Kgb. E il Presidente vide qualcosa di sorprendente, semidimenticato: un semplice girasole capitato per caso in un paradiso governativo. (...). Il Figlio di Contadini si avvicinò al girasole come a un compagno d'infanzia e carezzò la pelle dura dello stelo, coperta di peluria argentea. I passi che seguivano il Presidente si fermarono vicino al girasole. (...). Il Figlio di Contadini staccò lo stelo fibroso con un'abilità non ancora perduta. «Nonnino, il fiorellino non sente dolore?», chiese la nipotina. «Sì che lo sente. Ma sa che adesso lo regalerò alla nonna». La mano destra della nipote stringeva ancora il mazzo di carte e il Presidente mise il girasole nella mano sinistra. «Vai, portalo alla nonna». «Quando giocheremo a carte, nonno?». «Dopo», e la congedò con una leggera sculacciata. La nipote corse via e il Presidente rimase di fronte a quel girasole decapitato, volgendo la schiena al respiro dell'uomo cui appartenevano quei passi. «Ora la nipote se n'è andata. Puoi sparare», sospirò il Presidente senza voltarsi. Là dove lo stelo era stato spezzato gocciolava il sangue trasparente del girasole, un po' simile al latte... (...). Ma, invece dello sparo si levò una voce: «Posso fare una domanda?» Il Presidente sussultò. Non aveva mai sentito quella voce. Eppure nella dacia non doveva esserci nessuno che lui non conoscesse. Lentamente si voltò. Davanti a lui stava un ufficiale della guardia che conosceva benissimo. Ma il Presidente non aveva mai sentito la sua voce. Le guardie non parlano, eseguono ordini. (...). «Sono nato nella regione di Irkutsk, in Siberia», disse l'ufficiale. «E allora?», replicò il Presidente, freddamente, ma cercando di essere gentile. «Mio nonno, però, è nato a Privolnoe. Era un amico del suo nonno materno. Vennero confinati in Siberia insieme, come dei kulaki incalliti. Mio nonno mi raccontava che, quando uccisero la sua mucca lei, che allora era proprio piccolo, venne nutrito con il suo ultimo latte, munto quando la bestia era ormai morta. Mio nonno mi faceva dondolare sulle sue ginocchia e mi cantava la ninna nanna: "Sono affondate le navi, sono affondate da sole con le loro vele"». Il Presidente taceva stordito. «Come è morto mio nonno?», chiese il Figlio di Contadini. «Della morte sua, forse per nostalgia. Mio nonno sentiva la mancanza della steppa. Anche il suo, forse. Mio nonno sposò una donna buriata, rimase in Siberia. Posso fare una domanda allora?». «Certo», concesse il Presidente. «Io ero vicino a lei per proteggerla, tante volte, mentre faceva i suoi discorsi, e l'ho sentito dire che suo nonno aveva fatto la "scelta socialista". Voleva dire che tutto il popolo aveva fatto quella scelta, nella persona di suo nonno?». «Mio nonno aveva davvero organizzato il kolkhoz», borbottò in fretta il Presidente, stupito da questo inatteso confronto con la Storia che, per giunta, si presentava nelle vesti di una delle sue guardie. «Perché allora si è dimenticato che l'altro suo nonno non aveva fatto quella scelta?». «Non l'ho dimenticato», sussurrò il Figlio di Contadini. Il Presidente tacque. «Nonno, ho portato il fiorellino alla nonna», la nipote gli corse accanto e lo tirò per la manica, tentando di infilargli in mano il mazzo di carte. ((Andiamo a giocare, nonnooooo!». «Ma se non conosci le carte tentò di difendersi il Presidente -. Questa, per esempio, cos'è?». «La regina». «Quale regina?». La nipote arricciò la fronte, ricordò ed esclamò con gioia: «Di spade!». «Di picche - la corresse il Presidente e sorrise con amarezza -. La regina di spade è la politica». «La politica? Cos'è, nonno?». E il Presidente si rese conto che non sarebbe mai riuscito a spiegarglielo. Evghenij Evtuscenko (Traduzione di Anna Zafesova) «Nonnino, siamo in prigione, la mamma si è messa a piangere» I N anteprima mondiale anticipiamo uno dei capitoli del nuovo romanzo di Evtuscenko «Non morire prima della morte». La storia d'amore tra un vecchio ex campione di calcio e un'alpinista. Ma è anche il golpe di agosto, la crisi dell'Urss, di Evtuscenko e deH'intelligenzija russa. Ma è anche un atto di speranza, il colpo di reni di un vecchio leone che non si dà per vinto, che cerca «valori» in un deserto senza pace. Si pubblica ben poco di nuovo, oggi, in Russia. Eppure chissà quanti manoscritti di quest'epoca inquieta sono già pronti, di autori giovani e sconosciuti. Ma restano nei cassetti, come prima, anche se non c'è più la censura comunista. Perché le vecchie istituzioni del vecchio regime sono morte, ma il mercato, per ora, è solo il trionfo del reprint o della mediocrità. La Russia potrà cominciare a essere libera solo quando quei manoscritti vedranno la luce. Per ora non lo è. Giuliette- Chiesa Gorbaciov e la nipotina Il dialogo si svolge tra loro due (con Ralssa in sottofondo) nei giorni in cui non si capisce se il golpe avrà fortuna o fallirà Piccolo dialogo di un nonno con la nipotina mentre la flotta li osserva dal largo La flotta al largo in atteggiamento ambiguo: non si capisce ancora se interverrà per difendere Gorbaciov o per arrestarlo. Nella foto grande: Evghenij Evtuscenko