Ciampi nella trincea di Bankitalia di Paolo Guzzanti

Ciampi nella trincea di Bankitalia La rabbia e l'orgoglio dei custodi della moneta nel «day after» della sconfìtta valutaria italiana Ciampi nella trincea di Bankitalia Una giornata in via Nazionale u ROMA NA grisaglia leggera, camicia bianca, cravatta elegante e un po' spenta, il governatore della Banca d'Italia sta dritto come un fuso in plancia sulla sua ammiraglia. Carlo Azeglio Ciampi dorme male, mangia in fretta e il suo umore, anche se travestito da un'espressione impassibile, è del colore della grisaglia. Anzi nero. Lo studio del governatore è arredato con mobili di grande nobiltà, e si respira nel palazzo di via Nazionale l'atmosfera di un mondo separato e contiguo, nervoso e tuttavia impassibile. Sono le 17 e arrivano le prime notizie sul consiglio dei Ministri. Tutti tacciono. Davanti a Ciampi, una voce sussurra: «Che rabbia. Bastava una settimana, una settimana prima e molto si sarebbe potuto salvare». La vita quotidiana nel palazzo della difesa della lira, il palazzo in cui sono state vissute e combattute battaglie frettolosamente definite come linea del Piave, Caporetto, rotta, ritirata, la vita quotidiana dei suoi protagonisti è stata vissuta in modo intenso, drammatico e regolato da uno stile di vita: non apprezzare le emozioni, non farsene condizionare. Uno stretto collaboratore di Ciampi mi dice: «L'Italia è un peso medio che ha preteso di salire sul ring contro un peso massimo. Ora, è vero che un giorno Bob Fitzimons mise al tappeto con un gancio "hook" Corbett che pesava il doppio di lui, ma si era allenato per mesi spaccando la legna e facendosi i muscoli». Invece noi siamo saliti sul ring starnazzando, par di capire, e con rotoli di grasso intorno alla vita. L'edificio è grande e anzi grandioso, nei sotterranei c'è la sacrestia con le riserve d'oro, che Guido Carli volle qui; di fronte, più o meno, il teatro Eliseo. Ciampi era di casa in queste stanze dai soffitti altissimi, che si aprono su grandiosi corridoi'di marmo con moquette rossa, molto prima di diventare Governatore: la sua carriera, i suoi caffè, il suo sofisticato apprendimento, i suoi pasti, persino i suoi incubi hanno avuto questo palazzo come setting: «Questa volta non provo angoscia, dispiacere sì, la mia fortissima fede di europeista soffre, ma l'angoscia è un'altra cosa: soltanto la torbida e minacciosa vicenda dell'Ambrosiano mi portò all'angoscia. Adesso provo sentimenti molto più pacati». Un nero armadio antico e prezioso è l'unico oggetto di aspetto sinistro. Quanto al resto, il meriggio settembrino diffonde luci solari. Al di là delle due grandi porte dello studio c'è la piccola sala nella quale, quando arriva no ospiti a colazione, vengono spostati in fretta e furia mobili pesanti per allestire una tavola per quattro. Il palazzo, se si prescinde da questa stanza, non ha un luogo, un centro, un cuore o un proscenio destinato ad accogliere i fragori delle tempeste monetarie. Gli uomini che vivono e lavo rano qui appartengono a una stirpe orgogliosa: più britannici degli inglesi (Londra e la sua frettolosa débàcle sono giudicate con sopracciglio ad angolo acuto), fierissimi di aver speso ima fortuna per difendere il cambio finché è stato possibile, infastiditi dai giudizi esterni giudicati in genere saccenti e incompetenti («qui non si è svenato nessuno, le riserve vanno e vengono e non si bruciano ma si impiegano»), si comportano con il fair play degli ufficiali di Marina, un po' sdegnosi e molto fieri della loro barca. Insisto vanamente per cercare di raccogliere dettagli apparentemente inessenziali: quanto caffè scorre nelle notti? Fino a che ora si tengono le luci accese nel palazzo? E' certo che la maggior parte dei pasti viene consumata giù alla mensa, dove sono sempre disponibili tre linee di cucina: la pastaciuttara all'italiana, la fast food magia-e-corri, la cosiddetta paninoteca che è parola orrida quasi quanto il genere di cibo cui allude. Ma all'occorrenza il cuoco prepara pasti su ordinazione e porta a domicilio, nelle stanze grandi come aule magne, vassoi non guarnitissimi. C'è spirito di corpo, e si sente. Ma anche un senso di gelosa custodia del ruolo tecnico, rigorosamente ma non freddamente (è qui il punto) separato dalla politica: «C'è chi ci critica per non aver noi provocato una crisi che costringesse il governo a fare il dover suo: mai! Chi dice queste cose ignora la deontologia dello stare in Banca», mi ripete un uomo di Ciampi. IL governatore è amareggiato forse più per il comportamento degli altri Paesi della cosiddetta Comunità (ha ancora senso chiamarla così?), che per le balordaggini decennali di una classe di governo chiacchierona e pasticciona, incapace o miope, per la quale tuttavia e con freddo realismo si spendono parole di attenuanti che sembrano, anzi sono, del tutto sincere. Ma Ciampi è rimasto sbalordito dal comportamento di inglesi e spagnoli, che non hanno esitato a lasciare sola l'Italia nella ver- gogna della svalutazione, per poi cambiar faccia in 48 ore e senza sprechi di dignità. «No, non dormo bene in queste notti», conferma con pacatezza e sincerità il Governatore. L'uomo appare rattristato e combattivo, gentile e solitario, ma ferito in qualcosa di profondo che gli turba l'anima e gli disturba il sonno. Che cosa sia è evidente: frustrazione, fastidio e rabbia per il tempo perso, giudizi su uomini e situazioni che si leggono sulla sua fronte aggrondata. Ciampi non è al principe di Condé e del resto la sua battaglia non è certamente quella vittoriosa di Rocroi. Non foss'altro perché Condé era passato dalla parte degli spagnoli, sui quali invece Ciampi ha probabilmente molte riseive. Non era la battaglia di Rocroi, ma neppure la rotta di Roncisvalle, almeno a sentire la gente che lo circonda. Quanto a lui, ribadisce a denti stretti che «la stabilità del cambio non è una buona cosa in sé, non è un obiettivo, ma semmai uno strumento: sta ai governi usarlo e alla banca centrale difenderlo tanto quanto è possibile». Una guerra c'è comunque stata, e dalla pesante porta del governatore si è sentita più volte la voce alta, anche se non irata di Ciampi che incalzava il «mio caro Helmut», cioè il suo omologo alla Bundesbank, il tedeschissimo dottor Schlesinger, che gli telefonava terrorizzato e alluvionato da fiumi di marchi venduti. Ciampi non è davvero un freddo tecnico che ragioni soltanto in modo tecnico. Per dirla in termini semplici e anzi banali, anche i governatori hanno un cuore e Ciampi, per quanto gli consenta il ruolo, ci mette del sentimento. E la sua delusione, unita alla fermezza, sono simili a quelle di chi è costretto a giocare ad un tavolo in cui non tutti sono in grado di capire il valore delle carte. Eppure gli abitanti di questo palazzo sono stati accusati di essere «creduloni», di non aver saputo dare in modo più efficace una scossa traumatica al governo («A noi non devono chiedere un giudizio sugli uomini che governano, che devono restare uomini senza volto»), e con maggiore insistenza di aver «svenato» il Paese privandolo di ricchezze in valuta, che sarebbero state bruciate. La Banca era certo cosciente da tempo dell'«handicap» italiano, come lo chiamano qui. Ma la partita della svalutazione, questa avrebbe dovuto e potuto essere condotta con più determinazione, meno chiacchiere e in tempi non imposti dalle circostanze. Nei corridoi i passi non risuonano, perché l'ampiezza degli spazi, i tappeti e la discrezioni spengono ogni rumore. E', anche nel momento di massima tensione, un bastimento silenzioso come un sottomarino. Si beve più acqua minerale che caffè. Si fumano più toscani e pipe che sigarette. I telefoni modulano un trillo notturno. I quadri settecenteschi splendono sotto il disegno dei piccoli fari, man mano che il crepuscolo introduce le sue ombre. Il tempo, quello dell'orologio e del calendario, è stato e resta uno dei maggiori protagonisti della terribile e silenziosa battaglia. L'altro elemento è senz'altro psicologico: l'immagine, la credibilità, l'apparire, le paure, forse il cupio dissolvi di mezza Europa che, secondo quanto confida Ciampi ai suoi uomini, sembra non credere in se stessa: «Tutto è cominciato con il no danese. E' stato il segnale dell'inizio dell'attacco. L'altro palo era quello del referendum francese. Sarebbe stato utile capire in tempo quanto violenta e cruenta sarebbe diventata la battaglia». Battaglia contro chi e perché? Battaglia della speculazione? Non c'è dubbio. E naturalmente l'Italia è finita travolta in fondo alla classifica, con l'Inghilterra che che ha annunciato di «To opt out», uscirsene fuori, mentre crollano tutti tranne la grande Germania, affiancata dai due satelliti belga e olandese. Dunque è stata una sconfitta dei deboli e l'Italia era e resta molto debole per il suo debito, ma è stata una guerra in piena regola condotta da un fronte antieuropeo che ha scompaginato e umiliato il progetto. Brutto, bruttissimo affare e sembra che la Banca sia frustrata per la miopia dei governi italiani, ma più ancora indignata e addolorata per la violenza dell'attacco che è stato scatenato contro il sogno civile dell'Europa unita, lembo e baluardo di una civiltà minacciata di sgretolamento. Si può dire che i sentimenti e i risentimenti hanno, visti dalla luce di queste vetrate, un colore più laico, più realistico e per nulla affatto più cinico: «Ciampi ha parlato più volte di dubbio critico - dicono i suoi, sottovoce -, E tutta la difficoltà di queste manovre sta nei tempi in cui si agisce e si reagisce, più che nella logica delle mosse. Il fattore tempo è determinante e quando il tempo è scaduto c'è poco da baloccarsi con il dubbio critico: quando hai perso, hai perso e se crolli, crolli». Il Governatore sta seduto su una delle sue poltrone e mentre sfoglia le prime agenzie che riferiscono i dettagli della manovra decisa dal consiglio dei ministri osserva con amarezza e una punta di disprezzo: «E va bene. La speculazione putroppo questa volta si porta a casa un premio». Qualcuno completa il suo pensiero: «Peccato, perché se queste decisioni fossero state prese soltanto pochi giorni fa, l'avremmo castigata ancora una volta, come abbiamo sempre fatto. Ma non si può sempre vincere, purtroppo». Corrono nei corridoi più metafore che parole: l'economia è una mangusta che non può difendersi dal cobra se non ha spazio; il profitto (parole di Einaudi) è una lepre velocissima che schizza via per fuggire cani e battitori. Un uomo in grigio mi dice: «Ricordi che questo è un Paese che ha avute governatori e ministri del Tesoro di livello mondiale». C'è spirito di servizio e una forma discreta, non tracotante, di patriottismo e anche di nobiltà, proprio qui che sarebbe come dire nel tempio del denaro. Ed è, a ben pensarci, un fatto consolante e straordinario, se non unico. Vorrei dirlo al governatore ma vedendolo qui, solo e fermo nella bufera della lira, gli stringo semplicemente la mano, mentre esco da via Nazionale. Paolo Guzzanti Grisaglia leggera, J umore nero Le abitudini sconvolte da un clima di presidio permanente La fede europeista ferita dalla crisi monetaria J Nella foto sotto la sede della Banca d'Italia In via Nazionale a Roma: Qui a fianco Tommaso Padoa Schioppa, membro del direttorio