Bella Italia, brutti spot

Bella Italia, brutti spot La nostra pubblicità televisiva sotto accusa. Per Del Buono e Marco Giusti è la peggiore del mondo Bella Italia, brutti spot Dopo Carosello, più niente di originale />j || ERA una volta Carosello, 1 'j la via autarchica alla ■ • pubblicità. Più che spot, li piccoli film. Le fiabe di —I una tv generation allevata a Calimeli e pistoleri Paulista. Carosello era un sogno tutto nostro, italiano, dove si nominava il prodotto solo negli ultimi secondi. Come si svela l'autore del delitto: «Anch'io ho commesso un errore, non ho mai usato la brillantina Linetti!». E adesso? Oltre Carosello, niente. Gli spot italiani «fanno schifo», sono «i peggiori del mondo», «i più stupidijighetti e convenzionali», «roba da Paese di serie D». A dirlo sono in molti, da Marco Giusti a Oreste del Buono, da Oliviero Toscani ad Aldo Grasso. E lo dicono tutti insieme, ora, dopo averlo pensato a lungo in questi dieci anni consacrati all'Immagine. Ma non sono soltanto parole. All'ultimo festival del filmato pubblicitario di Cannes, nel giugno scorso, gli spot italiani sono stati accolti dal pubblico con bordate di fischi e sghignazzi L'intero settore è uscito con le ossa rotte: su 254 spot inviati, una quota sontuosa, ne sono stati premiati soltanto tre. Nel medagliere di questa olimpiade dello spot l'Italia figurava all'undicesimo posto, tra il Sud Africa e la Norvegia. In cima, al solito, Inghilterra e Usa (27 spot premiati), terza la giovanissima Spagna (12), quarta l'Olanda, che ha una produzione ridicola: ma su 16 spot mandati alla rassegna, 11 hanno ricevuto un premio. Negli ultimi mesi due altre picconate al mito del Creativo italiano, celebrato per un decennio, sono venute dalla più brutta campagna elettorale di sempre e dalle Olimpiadi di Barcellona, che hanno riversato sui nostri schermi grande e bella pubblicità made in Usa, dalle nuove serie, della Coca-Cola e della Nike, giocata sui cartoons, fino al Gatorade imperniato sull'idolo di basket Michael Jordan. Tanto bella ed «eroica» da entusiasmare Oreste del Buono, spettatore peraltro «annoiatissimo» dell'evento barcellonese. «La pubblicità italiana è orribile. Dopo anni di dibattito culturale siamo alla donna dei galletti Vallespluga, che vede un pollo in tavola e comincia a fare coccodè», ha scritto Marco Giusti sulla «Spotparade» che tiene da otto anni sul Manifesto. Con sana cattiveria di «blobbista», Giusti infierisce: «La media dei creativi italiani è abominevole. Una serie di yesman abituati a prendere ordini da imprenditori che non sanno un accidente di comunicazione. Abbarbicati alle loro seggiole, con stipendi da calciatori, gelosissimi. Se per sbaglio in agenzia arriva un giovane di talento, lo segano subito. Come succede in fondo anche in tv. Un Giorgio Gori, direttore di Canale 5 e ventriloquo di Berlusconi, non può che produrre altri giorgigori. Peggio della pubblicità italiana c'è solo una cosa, il cinema italiano». Giusti rimpiange il Carosello Nescafé di Olmi («Quando la notte se ne va») o Spumante Cinzano («Oh, Happy Day») di Gillo Pontecorvo e Alka Seltzer di Vittorio Taviani («Mangiato troppo, mangiato in fretta?», per anni sigla di Blob), e l'Algida, di Ugo Gregoretti, e la Coop. E Fellini? «Mi piaceva quello dei rigatoni. Questo di Venezia meno, sembra Carmine Gallone. Non è pubblicità, non è cinema». Anche Aldo Grasso guarda a Carosello come grande laboratorio della tv italiana». Ma si domanda: «Era poi pubblicità, quella, o non piuttosto racconto breve in tv?». «Carosello non si potrebbe più fare - dice Fausto Lupetti, editore specializzato -. Ma è vero che, da allora, non è più esistita una via italiana alla pubblicità. E aggiungo, il livello culturale è precipitato. Negli Anni 50 all'Olivetti ci trovavi un copywriter come Franco Fortini. Oggi chi scrive i testi e sceneggia gli spot è in buona parte gente convinta che il futurismo sia roba che si mangia. Si scopiazza molto dall'estero». Piaccia o no, l'unica campagna che ha fatto parlare di sé il mondo, quella della Benetton, non è mai andata in tv e non è stata ideata da un creativo di professione. Oliviero Toscani sforna pareri al vetriolo: «La nostra è pubblicità da Terzo Mondo, ma più ipocrita.^ Costa moltissimo e nessuno la vede oltre Chiasso. La Barili a dà 400 miliardi a Gavino Sanna, und che per tutta la vita è andato a letto> dopo Carosello e non ha visto nient'altro. Noi della Benetton con cifre trenta volte inferiori abbiamo raggiunto angoli di Tibet e vicoli egiziani. Semplicemente rischiando un po' più degli altri. E soprattutto senza fare un sondaggio di mercato, questa idiozia alla quale tutti si uniformano, e senza mai passare dalla tv». Berlusconi ha detto che non avrebbe mai trasmesso, per ragioni di gusto, la fotografia di un moribondo. «Il gusto di Berlusconi è noto per essere basso. Oppure ne ha troppo, chissà. Massi, la nostra pubblicità ha tanto buon gusto, è tanto per bene, è tanto inutile». A questo punto ci vorrebbe tanto qualcuno che la difendesse, questa pubblicità brutta, ricca e cattiva. Ma è dura. Marco Mignani, uno dei più brillanti autori di spot italiani, forse l'unico col gusto del surrealismo (ha inventato il pappagallo che mangia il tonno, gli uomini volanti del detersivo, oltre alla fortunatissima Milano da bere e tanto altro) ammette desolato: «Questi Anni Ottanta sono stati il trionfo del cretino. La pubblicità è prima di tutto divertimento, gioco, favola. Invece da noi è stata un'mterminabile pippa televisiva sul Bello. Bella gente, belle immagini, bei bambini, belle auto, belle case. Con un effetto paradossale. Invece di convincere la gente a comprare i prodotti, ha funzionato da enorme moltiplicatore dell'invidia sociale. Il ricorso ai cosiddetti grandi registi, poi, è stato un vero fallimento. Lavorano con la mano sinistra, si degnano. In America Ridley Scott o Alan Parker partono dalla pubblicità e arrivano a un grande cinema. Da noi il percorso è inverso e qualsiasi mediocre giovanotto è convinto che le aziende lo debbano pagare a peso d'oro perché appone la sua firma a uno spot. I vecchi come i giovani, anche i bravissimi: Salvatores, Tornatore». E il cliente? Ha quasi sempre torto. «Non c'è rispetto da parte di molte aziende. I peggiori? Di certo i politici. Hanno una tale considerazione dei pubblicitari che la de per valutare l'ultima campagna ha chiamato Pippo Baudo». La noia è il peccato capitale. E la monolitica assenza di sense of humour. Silvano Guidone, vicepresidente della «Armando Testa», è uno dei pochi a remare controcorrente. E' l'inventore dello spot sadico-grottesco con Villaggio che lega la massaia e la brutalizza, del Bistefani-Babbo Natale e prima ancora del leggendario «La pancia non c'è più» dell'Olio Sasso con colonna sono-, ra di Grieg. «Non si ride più. I colleghi sono diventati gente seriosa che sforna spot seriosi e aggressivi come i manager che glieli commissionano. Entrambi partono dal tacito presupposto che il pubblico sia formato da imbecilli. Il risultato finale è un poderoso effetto boomerang. In questo senso, la campagna politica del 5 aprile è stata davvero esemplare. Anche se bisogna ammettere che non era facile. Gli altri prodotti, i detersivi per esempio, sono più diversificati dei partiti. Su tutto infine regna la dittatura dei buoni sentimenti, alla Gavino Sanna. Un disastro. Quando voglio vedere un bello spot giro su Antenne 2. E gli spagnoli, anche qui, arrivati l'altro ieri, ci hanno già sorpassati». Come reagisce lui, Sanna? E' il cantore dei mulini bianchi, l'uomo che da trentanni spalma di fitti strati mielosi qualsiasi merce italiana. Tutti lo copiano, lui copia se stesso. L'ultima campagna per i salami Fiorucci è una fotocopia del primo manifesto Balilla. Dall'alto di un successo che si misura con decine di zeri, Sanna è molto conciliante: «Io avrei avviato la dittatura dei buoni sentimenti? Ma queste cose le ho imparate in America, dove a volte gli spot sono ancora più appiccicosi dei nostri. No, il fatto è che la nobile missione della pubblicità è vendere un prodotto, non approdare al capolavoro. Quando ho cominciato, nell'85, la Balilla aveva il 20% del mercato, ora ne copre quasi il 50. Che volete che m'importi del giudizio di qualche esteta? Io ho fiducia nella crisi, nel taglio dei budget e nella conseguente selezione naturale. Secondo me in ogni caso, più che la pubblicità, è in crisi la tv italiana. Forse è meglio tornare alla carta stampata». Ma intanto sul Mito si accaniscono tutti. L'ultimo numero di Cuore ha un reportage inquietante. Il famoso Mulino Bianco, racconta l'inviato Piero Dadone, è in realtà una «sudicia catapecchia» perduta nella campagna toscana, dove «la ruotona non gira, il ruscello è a secco e l'acqua, pompata in occasione delle riprese tv, è presa dall'mquinatissimo fiume Merse». Intorno è un'immensa discarica a cielo aperto e l'unica famiglia ospitata all'interno delle diroccate mura è formata da topi giganti. I turisti che ogni tanto vi capitano, col cuore riscaldato dallo spot, scappano terrorizzati. Sembra una satira, una cosa da Cuore. E invece è tutto verissimo. Curzio Maltese Oliviero Toscani: «Mandiamo messaggi da sottosviluppati». Marco Mignani, autore: «Gli Anni 80 sono stati il trionfo del cretino» Gavino Sanna: «Ma dobbiamo vendere prodotti, non fare arte» Gabriele Salvatores Sopra, F. Fellini. A destra Gabriele Salvatores e, sopra. Marco Testa Sopra, F. Fellini. A destra, O. Toscani e G. Sanna, in alto uno spot della Coca-Cola La fotografia di Oliviero Toscani per la pubblicità di Benetton, con i preservativi «olimpici» Spon Contro la sete, un classico. Sponsor ufficiale delle Vacanze.