Clapton, Waits, Cole tre facce per il blues

Clapton, Waits, Cole tre facce per il blues r "i Clapton, Waits, Cole tre facce per il blues stesa magmatica sempre in movimento, viva e generosa di frutti musicali. D'origine nera, ha forme che coinvolgono e conquistano ad ogni latitudine. Tra le numerose sfaccettature, le mille sensibilità con cui numerosi musicisti avvicinano i temi del blues, in questa ripresa settembrina della produzione discografica si segnalano tre opere di tre frequentatori delle avventure blues. Tutti bianchi, con stili diversi. Eric Clapton si misura nella sua forma più classica; Tom Waits in una cinematografica, intellettuale e underground; Jude Cole in quella più elementare e venata di rock. «Unplugged» (Reprise, 1 Cd) è 3 titolo dello splendido album di Eric Clapton. Tredici registrazioni dal vivo, di cui sono disponibili anche le versioni in Laser disc e video curate dalla Mtv, il noto network musicale. Colpisce l'eleganza, la misura, l'equilibrio delle forme con cui Clapton regala una magistrale collana di interpretazioni blues. Il suono della chitarra acustica conferisce un fascino speciale. Dolcissimo come è l'anima di questo stile musicale. Un episodio in più a confermare la tendenza a riscoprire i suoni acustici, più naturali. Alcune composizioni sono firmate da autori del calibro di Big Bill Broonzy, Robert Johnson; altre dallo stesso Clapton. Di sapore moderno è «Old love», composta insieme a Robert Cray. Due le novità: «Lonely stranger» e «Signe». Ma hanno un impatto meno incisivo, visto che sono alternate a tanto nobile materiale storico. «Running' on faith», «San Francisco Bay Blues», «Walkin' Blues», «Malted milk», «Alberta», in questo coro emerge «Tears in heaven», dolce ballata dall'atmosfera romantica. Un valido contributo a creare il fascino di questo disco lo offrono le percussioni di Ry Cooper e la raffinata batteria di Steve Ferrone. Un album da centellinare. Il blues è una forma che può essere dolce come un bacio o amaro come insulto. La dolcezza di Clapton, contrasta decisamente con l'uso contundente di cui fa ampio uso Tom Waits, che tenerone non è mai stato, in «Bone Machine» (Island, 1 Cd), galleria di panorami tratti dal lato meno divertente della vita. Luci dall'inferno della casa accanto, si potrebbero definire. Coadiuvato dalla moglie Kathleen Brennan, Waits ha proseguito la sua ricerca di abbinamenti tra blues e sonorità industriali. Ha anche inventata una macchina per produrre suoni: il «conundrum», strumento percussivo formato da vari pezzi metallici uniti da un sostegno simile ad un crocifisso. pere I pezz I steg m «Bone Machine» è di sicuro l'album più astratto concepito da Tom Waits. E oltretutto il primo in cui si misura direttamente con la denuncia sociale. Sono 16 mini-film che bruciano. Attacca le organizzazioni internazionali che manipolano i governi («Black wings»), lancia sanguinose accuse contro i processi politici negli Stati Uniti («In the Colosseum»). Poi s'interroga sulla mortalità dell'uomo («Dirt in the ground»), tra realismo e poesia immagina gli ultimi attimi di vita di una donna («The Ocean doesn't want me today»), delinea una favola faulkneriana su un omicidio in una fattoria e ragiona su quanto in fretta si dimentichino questo tipo di eventi («Murder in the Red Barn»). Tutto queste «leggerezze» sono eseguite da Tom Waits con pochissimi strumenti e una voce cavernosa, più del solito. Quasi shoccante è il brano iniziale. Qualche attimo di tregua, non di leggero sollievo, lo concedono la marcetta «I don't wanna grow up» (rauco lamento nei confronti della prospettiva della maturità). Melodie con melanconia tutta irlandese sono «Who are you», «Whistle down the Wind», «A little rain». In questi due ultimi brani compaiono due ospiti d'eccezione: nel primo David Hidalgo dei Los Lobos suona violino e fisarmonica, nel secondo Keith Richard ingaggia un imprevedibile duetto chitaristico-canoro con Waits. «Bone Machine» è un disco-laboratorio, un magazzino di Frankestein. Un'opera difficile: se si decide di tentare l'avventura, meglio preparare gli antidoti adatti. Con l'elementare e piacevole rock-blues di Jude Cole in «Start the car» (Reprise, 1 Cd) si torna alla normalità. In copertina ci sono un'auto e una ragazza posteggiate in una periferia urbana e industriale, con la strada che prosegue dritta verso la campagna. Lo stile sudista di Cole ben accompagna queste canzoni che sanno di viaggio ininterrotto sui nastri d'asfalto americani, da moderno pioniere. L'auto qui è regina. E curiosa è la citazione poetica di un'Alfa Romeo in «First your money». Un'America da cartolina. Più volte vista, ma sempre invogliante. Alessandro Rosa isa^J

Luoghi citati: America, San Francisco, Stati Uniti