Quasimodo non fu un vile di Mario Baudino

Quasimodo non fu un vile Il figlio del premio Nobel respinge l'accusa di Arnoldo Foà Quasimodo non fu un vile «Con il duce rischiò la fucilazione» "7T1UASIM0D0, bel pusilla11 nime! Come un guanto § I lanciato in modo (owia11 mente) un po' teatrale, y I l'accusa di Arnoldo Foà v viene raccolta dal figlio del poeta, attore anche lui, e diventa una sfida sulla fortuna postuma del premio Nobel italiano per la letteratura. «Parlar male di mio padre è diventato un luogo comune. Adesso basta. Può non convincere come scrittore, ma di qui a dargli del pusillanime ce ne corre. Mio padre non è mai stato schiavo di alcun formalismo, non ha mai avuto la tessera fascista. E' stato anche critico teatrale, Foà doveva conoscerlo abbastanza per sapere che pusillanime proprio non era» accusa Alessandro Quasimodo. L'insulto «alla memoria» brucia. Foà se lo era concesso nel «Racconto d'estate» pubblicato su La Stampa di martedì 6 settembre. Nel corso della lunga intervista con Osvaldo Guerrieri in cui raccontava gli anni sotto il fascismo, perseguitato perché ebreo e costretto ora a recitare sotto falso nome, ora a tenersi lontano dalle scene facendo mille strani lavori, il grande attore aveva ricordato il successo che gli giunse a guerra finita per le sue letture dei lirici spagnoli, cht considera «fecondi e sinceri», e non sudditi «del formalismo italiano». «Scrivono per la necessità di esprimersi - aveva aggiunto -. Che differenza dai nostri. Pensiamo a Quasimodo che, oppresso dal piede straniero, appendeva la cetra alle fronde dei salici: bel pusillanime. Lui taceva e gli spagnoli cantavano, urlavano il loro sangue e la loro disperazione». La citazione è proverbiale: i versi «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore/ fra i morti abbandonati nelle piazze» appartengono a una delle poesie più note scritte da Quasimodo nel primo dopoguerra, quando il poeta cantava la Resistenza e divenne il popolarissimo aedo dell'impegno civile e delle lotte sociali, dopo essere stato un esponente di primo piano dell'ermetismo fiorentino. Era il Quasimodo «impegnato», che conquistò il Nobel nel '59 fra un mare di polemiche. Ci fu chi disse che era stato «raccomandato» dal calciatore Nordahl, stella svedese del Milan, e chi, come Emilio Cecchi, scrisse sul Corriere che «a cavai donato non si guarda in bocca». Da allora, molte cose sono cambiate non solo nel mondo della letteratura; dall'esaltazione al ridimensionamento il passo è stato molto breve. Salvatore Quasimodo è morto nel '68. Già nel '69 un giovane critico, Edoardo Sanguineti, dava il via a una radicale revisione nell'antologia del Novecento italiano che pubblicò per Einaudi. Salvatore Quasimodo veniva drasticamente ridimensionato, eccezion fatta per le sue traduzioni dai lirici greci, proprio quelle per le quali in vita era stato molto criticato, con accuse aspre di errori e svarioni filologici. Da allora gli animi si sono raf- freddati. Il poeta è entrato in un «cono d'ombra», la vecchia «triade» Ungaretti-Montale-Quasimodo è da tempo zoppa. Secondo il figlio, questa è un'altra ingiustizia storica. Ma non la più grave. «Io potrei anche accettare che si dica: "Quasimodo non mi piace". Vedo che, quando porto le sue poesie nelle scuole, è molto amato dai ragazzi. E che i suoi libri continuano a vendersi molto bene: ma questo è un altro discorso. Quel che mi dà veramente fastidio sono le accuse di vigliaccheria. Accuse false. Già qualche anno fa si era detto che mio padre avrebbe ricevuto un premio in denaro dall'Accademia d'Italia, insomma dal Minculpop, grazie ad Angiolo Silvio Novara. Era assolutamente falso. Durante il fascismo, mio padre forse moriva di fame, ma non ha mai collaborato. E alla fine ha persino corso il rischio di venir fucilato: lo prelevarono in casa quelli della banda Corridoni, lo picchiarono, avevano l'ordine di sparargli. Lui si salvò parlando di poesia. La cosa strana è che Foà, ebreo, non riconosce nei versi che cita l'eco del Salmo biblico sull'esilio in Babi- Ionia. E poi credo che quando furono scritte, quelle parole non suonassero retoriche: erano il ricordo del silenzio, della chiusura davanti all'inaccettabile». «Mio padre ha sempre pagato di persona - continua Alessandro Quasimodo -: dopo la strage di Portella della Ginestra, scrisse un articolo sull'Unità in cui chiamava in causa il ministro Sceiba, denunciando le connivenze statali. E nel '60 è stato l'unico che abbia accettato di presentare Ezra Pound, che a sinistra consideravano solo un pazzo fascista, alla Statale di Milano, appena liberato dal manicomio criminale. Vorrei vedere quanti altri avrebbero avuto il suo coraggio. L'accusa di essere stato un vigliacco è inaccettabile. Ma anche i silenzi e le rimozioni della sua opera sono ingiusti». E il figlio del poeta cita come esempio un'altra antologia che fece molto discutere, - e che lo fece arrabbiare: i Poeti italiani del Novecento, preparata nel '78 per Mondadori da Pier Vincenzo Mengaldo. Anche in quel caso, il peso di Quasimodo nella poesia italiana veniva molto ridotto. Mengaldo non ha cambiato idea: «Per me ci conferma - è un discorso chiuso, e ho l'impressione che lo sia anche per i giovani. Il poeta va ridimensionato: non il traduttore, che è eccellente. E' un minore, anche se fu uno dei massimi "sistematoli" del linguaggio dell'ermetismo». Ma non lo si può accusare di essere stato «pusillanime». «Anzi - conclude Mengaldo - nei suoi scritti fu spesso molto coraggioso». Stessa sentenza, poco incoraggiante, da parte di Sanguineti: «La revisione fatta negli Anni Sessanta vale ancor oggi. Le sue cose più belle restano ì lirici greci. E va detto che anche il Quasimodo resistenziale è molto manierista, non lontano dalla prima fase "ermetica"». Nessun ripensamento? «Non ne sentirei U bisogno. Però capisco l'amarezza del figlio». E' la stessa amarezza di un critico come Oreste Macrì, che è stato uno dei padri dell'ermetismo critico ed ha sempre seguito con grande attenzione l'opera di Quasimodo. «Lui appartiene alla grande sinistra della poesia mondiale, come Alberti e Neruda - insiste Macrì -. Non ha nulla di vile e pusillanime, anzi è l'unica voce resistenziale della poesia italiana». Lo studioso, che ha dedicato una vasta monografia al poeta {La poesia di Salvatore Quasimodo, Sellerio) si accalora: «la sua grande disgrazia è stata vincere il premio Nobel. Sconvolse l'assetto letterario, non gli fu perdonato. E il suo carattere non solo difficile ma addirittura autoritario ha fatto il resto. Ma non c'è solo lui fra i grandi dimenticati: c'è anche Luigi Fallacara. Per me è un motivo di grande amarezza: ci vuole una nuova generazione di lettori, è l'unica speranza che mi resta». La difesa di Macrì è accorata, generosa, ma sembra destinata a restare un'eccezione. Un critico autorevolissimo dell'ultima generazione come Carlo Ossola, grande specialista di Ungaretti, vede Quasimodo prigioniero della stagione ermetica, sopraffatto dalle voci che si sono affermate dal '46 in pòi. Sanguineti dice «è un destino...». Ossola gli fa eco prendendo a prestito una metafora da Piazza degli Affari: «E' un titolo fermo». Mario Baudino A sinistra: Salvatore Quasimodo a Stoccolma, per il premio Nobel, nel 1959. Sotto: Arnoldo Foà Sopra, Alessandro Quasimodo figlio del poeta I critici lo difendono ma lo giudicano un poeta minore: parlano Sanguineti, Mengaldo, Ossola

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