SECCHIAROLI Il dottor Paparazzo sono io di Lilli Gruber

SECCHIAROLI Il dottor Paparazzo sono ioLAMEMORiA.il fotografo che ispirò Fellini ricorda i clic selvaggi e le notti ruggenti in via Veneto SECCHIAROLI Il dottor Paparazzo sono io ROMA DAL NOSTRO INVIATO Abbiamo appena visto le tette di Sarah Ferguson e di Lilli Gruber e ci spettegoliamo e discutiamo sopra in questa chiusura d'estate. Il teleobiettivo guardone l'ha fatta da padrone, è stato detto. «Il colpo di Sarah è il più importante del dopoguerra»: parola di Tazio Secchiaroli, il paparazzo doc, l'Omero nostrano del pettegolezzo fotografico, il Tex Willer della Leica nella via Veneto della Dolce Vita, un periodo evocato spesso dai protagonisti dei «Racconti» in questa pagina. «Il servizio di Daniel Angeli su Sarah è stato pagato un miliardo e mezzo o due miliardi, più del doppio delle foto sul Papa nudo e in piscina nell'83. E ha fatto tremare la corona inglese. Niente da ridire. Ma le foto della Gruber mi sanno di fìnto, di costruito: lei sta troppo in posa, è troppo liscia. Per me sapeva del fotografo, era d'accordo. Nulla di paragonabile con la Loren in topless a Saint-Tropez nel '79: quelle erano foto vere, dove la carne e la faccia sono sofferte, impietose. Secchiaroli scuote il capo: «Il teleobiettivo d'oggi ingrandisce l'immagine 80 volte, è un bazooka che spara agli uccellini. Le mie foto invece erano dei corpo a corpo, lottavo come il torero con il toro. Ero il regista delle situazioni, a volte ne ero pure attore». I fotografi ronzavano in gruppo, l'uno in competizione con l'altro ma pronti a darsi una mano e a immortalarsi a vicenda nelle risse da clic selvaggio: erano dei «pistoleros», con l'obiettivo nascosto sotto l'ascella. Li chiamavano «Giaguari» e «Bounty killers». Secchiaroli è il più famoso di quei cacciatori di volti noti. L'estate del '58 fu ruggente. Le ore più frenetiche si concentrarono nella notte di Ferragosto lungo i 200 metri più illuminati di via Veneto. Sembrava una notte grama. Secchiaroli è di ronda in auto con altri due fotografi. All'improvviso un urlo: «C'è Faruk al Café de Paris!». Un fotografo schizza da una parte, un altro dall'altra. Secchiaroli corre dritto verso la pensilina che copre fiori e tavoli, fa un balzo e piomba per primo davanti all'ex re d'Egitto e al suo frappé in mezzo alle sorelle Capece Minutolo. Uno, due scatti. Non preme il terzo perché Faruk lo solleva da terra: «Se mi avesse dato un cazzotto, addio. Pesava 150 chili. Era furioso perché credeva fosse un attentato». C'è appena il tempo di mettere al sicuro il rollino che un cameriere avverte: ragazzi, Ava Gardner beve birra e whisky al Brik Top con Anthony Franciosa. Gli altri fotografi si lanciano in un parapiglia all'ingresso del locale lì di fronte, Secchiaroli nasconde la macchina, si spaccia per cliente, scova in un angolo la sua coppia: si accosta, socchiude la giacca, la mano felpata scivola sul petto e flash, il gioco è fatto. «Quando scoppiò la bagarre ero già fuori». Non è finita. Chi c'è in quella macchina americana che scorre adagio verso Porta Pinciana? Anita Ekberg e Anthony Steel. L'auto è circondata, Steel esce e si avventa sul fotografo più sfacciato e ostinato, naturalmente Secchiaroli. L'attore fa qualche passo, ondeggia e annaspa, precipita: troppo alcol in corpo. Anitona lo aiuta a rialzarsi, lo rimette sui sedili, ripartono. Tutta la sequenza finisce sui rotocalchi, come quelle di Ava e Faruk. «Fellini dormiva a Fregene il sonno dei giusti - dice Secchiaroli -. Ma era nata la Dolce Vita e non lo sapevamo. Andavano tutti in via Veneto perché c'erano i caffè aperti e si godeva il ponentino. Una notte alle quattro Ennio Flaiano salutò gli amici: "Vado a letto perché domattina devo alzarmi tardi"». Due mesi prima Secchiaroli era finito in un paesino vicino a Terni, Latteria di Maratta Alta: (Arrivo sudato nel pomeriggio e vedo un'aia, tre cascine e un albero. Sotto quell'albero due bambini dicevano di vedere la Madonna il giovedì. Li chiamo e a lei faccio mettere il vestito della prima comunione, a lui l'abitino della domenica. Li metto in ginocchio, raduno la gente che torna dal lavoro, comincio a scattare con il flash perché è venuta sera. Per qualche secondo nella pupilla resta un colpo di luce, un alone forte: i bambini vedono questa lucetta del flash e credono sia la Madonna. "Eccola, eccola!" gridano. Arretro e loro e la folla mi vengono dietro in estasi. Un episodio finito nella Dolce Vita». A ottobre Secchiaroli è di nuovo a tu per tu con Ava Gardner, questa volta in compagnia di Walter Chiari: «Le sparai un flash a trenta centimetri dal volto. Non andavo tanto per il sottile. Walter mi si scaglia addosso mentre ricarico la macchina. Un collega riprende la scena, i giornali la pubblicano. Anche questo ha ispirato Fellini». In autunno muore Pio XII: «Fu il mio colpo mancato. Diedi al medico del Papa, l'archiatra Galeazzi Lisi, un falso libro con una "Robot" dentro, non più grande di un pacchetto di siga¬ rette. Una macchinetta fotografica inventata dai tedeschi durante la guerra: la piazzavano sulle mitragliatrici. Il titolo del libro era Roma e al posto della o c'era l'obiettivo. Galeazzi Lisi scattò le foto al Papa in agonia, ed erano foto terribili, impressionarono tutto il mondo, ma perse la testa e anziché salvarsi dandole a me e dividendo a metà il guadagno come d'accordo, le vendette per otto milioni a "Paris-Match". Lo fecero a pezzi». Subito dopo ci fu lo scandalo del Rugantino: «C'ero io. Pure lo spogliarello di Aiché Nana è nel film di Fellini... Non ero nessuno, finché lo stesso Fellini non volle conoscermi. E' stata la maggiore soddisfazione della mia vita. Ci chiamò, noi quattro o cinque che avevamo riempito i giornali di quell'anno, e ci portò a cena da "Giggetto er Pescatore" all'Acquacetosa. Aveva un fascio di riviste e ci chiedeva: "Chi ha fatto questa foto? chi quest'altra?". Venne poi una decina di volte in via Veneto dopo mezzanotte. Ci domandava le abitudini di quella gente dorata, perché facevamo le foto, chi ce le comprava e perché. Prima di incontrare Fellini entravo in un giornale e il portiere mi annunciava: "C'è un fotografo". Durante la lavorazione della "Dolce Vita" lo stesso portiere diceva: "C'è il fotografo Secchiaroli". Dopo il film ero diventato "il signor Secchiaroli" e alla fine "il dottor Secchiaroli"». Era nato il paparazzo. E qui ci sono due storie: Fellini ha raccontato che Paparazzo era il cognome di un suo compagno di scuola, Flaiano che era quello di un albergatore delle Calabrie scelto a caso dalle pagine di Sulle rive dello Jonio, «aureo libretto» di George Gessing. «I nomi hanno un loro destino», ha scritto Flaiano. Nel film, Secchiaroli si chiamò comunque Paparazzo, divenuto in seguito nome comune. Lo interpretò l'attore Walter Santesso. Tre decenni di bellezza femminile sfilano nella mente del fotografo: «La più bella è Nastassja Kinski. La vidi a 16 anni ed era rosa, la sua pelle mandava luce. Poi viene Ava Gardner: una regina. Quando la sorprendevi senza trucco ti guardava con odio e dava una scossa ai capelli: le ricadevano scomposti e stupendi sul volto, ti fissava tra ira e seduzione. Liz Taylor non l'ho mai amata: era fredda, aci¬ da. Schifava tutti. Come Richard Burton. Noi italiani dovevamo esser merda per loro. Sofia Loren era l'intelligenza e la forza di carattere. L'ho seguita fin sul set di "La contessa di Hong-Kong", di Chaplin. Non ho mai visto un uomo così cattivo come Chaplin. Un giorno disse a Marion Brando: "Sei venuto con un quarto d'ora di ritardo. Attento, o cambio attore o cambio film". Come non ho mai visto una donna innamorata più di sua moglie Oona: gli portava i budini e gli omogeneizzati. Era già vecchio». Lo stratagemma più riuscito fu quello con Ava. Ancora Ava, una dominatrice di via Veneto: «La fotografai sotto la doccia nascosto in uno scatolone dove avevo fatto un buco per l'obiettivo. Eravamo a Cinecittà. Poi mi addormentai in un corridoio e fui svegliato da un canto: era lei che ciabattava canticchiando accanto a David Niven, avvolta in un accappatoio. Mi nascosi e la ripresi di nuovo con le sue gambe stortignaccole. Mi guardò furiosa e sibilò: "Bastard!". Mi sputò addosso». Secchiaroli aveva dei complici, degli infiltrati. Il più assiduo era Maurizio Arena: «Gli telefonavo tutte le sere: "Dove vai a ballare? Con chi?". E lui me lo diceva. Dopo faceva finta di arrabbiarsi. Un giorno vado a casa sua a Monteverde e aveva una donna in camera da letto, un'altra donna lo aspettava in salotto con gli amici, un'altra in camera da pranzo con la sorella e una in cucina con la madre. Nun ce se crede. Non è una finezza d'argomento, ma la sua fama di stallone era reale. Secchiaroli lo sa: il paparazzo è un campione di fiuto giornalistico, ma anche di abilità impudente e cinica. Queste accuse sono sempre fioccate. Il paparazzo è uno che viola l'intimità altrui, uno scippatore d'immagini. E' un moralista: in primo luogo perché butta giù dal trono i personaggi più mitizzati sorprendendoli in atteggiamenti trasgressivi o ridicoli, e in questo i critici gli riconoscono una speciale, lampeggiante funzione democratica soprattutto negli anni dopo il fascismo, che aveva privilegiato immagini decorative e rassicuranti; in secondo luogo perché sembra tutelare la morale corrente: non sta bene mettersi con partner troppo giovani, non sta bene prendere il sole nudi, non sta bene andare a cena con chi non è tuo marito o tua moglie, e così via: il paparazzo è sempre lì, spia ogni minima, supposta violazione. «Dovevo legare il pranzo con la cena - ribatte Secchiaroli -, Dovevo mangiare, vendere le foto che il mercato voleva. Avevo una grossa rabbia dentro di me. Ricordo la sera in cui vidi il playboy miliardario Baby Pignatari uscire dall'Excelsior con Elsa Martinelli e Rosanna Schiaffino. Andavano al night. Sentii invidia: per lui, per la sua ricchezza e i suoi amori. D'istinto cercavo di mettere tutti in cattiva luce, di coglierli nei gesti più goffi e sconvenienti. Una forma di vendetta sociale. Feci il mio carnevale, il mio '68, dieci anni prima». Secchiaroli ha 66 anni e vive all'ultimo piano di un palazzo a Centocelle, il quartiere in cui abitava da ragazzino: «Qui non sei nessuno. Sei come quello della barzelletta, che va in America per trent'anni e quando torna con la valigia un amico gli domanda: "Che fai, parti?"... La macchina fotografica da un po' mi dà fastidio. L'ultima che ho comprato l'ho tenuta tre mesi sotto il letto. Non riesco più a scattar foto. Ho il rigetto. Feci delle foto a Costanzo e alla Fenech a "Domenica in" ma non le ho vendute, e una foto non venduta è una foto sbagliata. Lo dice l'etica». Separato dalla moglie, due figli («Formichina e Cicalone, li chiamo io»), da 15 anni vive da solo. Gli vengono in casa la sorella o il figlio, che pure ha iniziato a fare il fotografo. «Se la vita comincia a 40 anni, io l'ho capito a 60. Secchiaroli si cerca: «Che cosa ho sbagliato? Forse la vita affettiva. Nel lavoro ho avuto successo. Quando a 20 anni mi diedero in mano la prima macchina fotografica, "Questo è il mestiere mio", mi sono detto. Avevo fatto il fabbro, il falegname, il fuochista in ferrovia, il fattorino a Cinecittà. La prima volta che fotografai De Gasperi, quasi mi si mise in posa. Rimasi sbalordito: il primo cittadino d'Italia obbediva a quell'ultimo accattone di periferia che ero io, io che stavo in una camera e cucina con mia madre e due sorelle. E Pio XII sulla sedia gestatoria sembrò pure lui guardarmi in posa. Scoprii che la fotografia è una potenza». Dice: «Di Arena e della Ekberg e di tutti quanti non m'importa più niente... Il fotografo Ferdinando Scianna m'ha detto un giorno: "Tu sei Claudio Villa, io sono Mozart". E Berengo Gardin: "Ah, tu sei un paparazzo". E Pinna: "E' bravo, ma è un paparazzo". Non mi perdonano. Sento una barriera. Loro sono gli intellettuali, hanno fatto il liceo e l'Università. Io sono della periferia. «Mi sento addosso quest'etichetta di ladro d'immagini, di paparazzo - continua -. E per paradosso Zannier mi chiama a fare una conferenza all'Università e viene da me uno studente del Dams di Bologna per fare una tesi... "Tu sei Claudio Villa": mi dà fastidio, però forse è la verità. Eravamo accattoni. Fellini non l'ho capito. Sono stato vicino a lui e a questa gente e non ho capito nulla. E' un tormento. Un giorno dissi a Fellini che il suo più bel film erano I vitelloni. "Tazio, è 8 e 1/2", mi ha rimproverato. Per me Fellini era uno che si agitava, un tipo scenografico, uno che mi faceva vendere. 8 e 1/2 lo capisco adesso». Accanto al lettino, fra telecomandi e pile di videocassette e libri di storia e archeologia, è incollata allo scrittoio una poesia giovanile di Pavese. Dallo specchio del bagno pende Estiva di Cardarelli. «La so a memoria», dice Secchiaroli. Estrae dal profondo del portafoglio un'altra poesia di Cardarelli: «"Autunno. Già lo sentimmo venire...". Cardarelli me lo rivedo al Caffè Strega in via Veneto, spostato e sballottato dai camerieri su una sedia con il cappotto addosso anche d'estate. Non si muoveva più. Abitava lì sopra, in una pensione che gli pagavano gli amici. Non aveva una lira. "Il più grande poeta morente", lo chiamavano gli intellettuali... "Nun me fa' la foto", mi gridava agitando il bastone... Ho rimorso. E mo' me viene da piagne». Claudio Afta rocca 0 fianco, Secchiaroli con Anna Maria Moneta Caglio una protagonista del processo Montesi), nell'estate del "57. Più a sinistra, Walter Chiari attacca il fotografo in via Veneto, nel '58. Sopra, Federico Fellini osserva la Nikon di Secchiaroli sul set di «Amarcord» Il fotografo Tazio Secchiaroli con Sofia Loren sul set di «Bianco rosso e...», film del 1972 di Alberto 1 Lattuada. A destra, Anita Ekberg ai tempi della «Dolce Vita»

Luoghi citati: America, Bologna, Egitto, Italia, Monteverde, Roma