«Polonia, di scioperi si muore» di Foto Ap

«Polonia, di scioperi si muore» «Una volta erano l'arma per abbattere il totalitarismo, oggi non possiamo di nuovo puntare quella pistola» «Polonia, di scioperi si muore» Kuron, ministro ed ex sindacalista d'assalto VARSAVIA DAL NOSTRO INVIATO «Gli scioperi sono un lusso che la Polonia non si può più permettere. In passato nobilitavano la causa, anch'io li usavo in quanto costituivano l'unica arma a disposizione con cui abbattere il totalitarismo, ma oggi non possiamo puntare di nuovo quella pistola, non serve alla normalizzazione del Paese, abbiamo bisogno disperato del dialogo fra le parti sociali. Offriamo la nostra piena disponibilità, duncme anche gli altri facciano la loro parte». Chissà cmanto pesa a Jacek Kuron pronunciare ernesto atto di fede, lui che era stato uno dei simboli di Solidarnosc, il combattente della prima ora animato dal sacro furore del comunista pentito. In largo anticipo su Lech Walesa che progettava di arrampicarsi sui cancelli dei cantieri navali di Danzica, Kuron troneggiava già sulle barricate, aveva fondato il Kor, il Comitato della difesa operaia, mirando al cuore del sistema jaruzelskiano, e prese parte ai moti del '56, del '70, dell'80 che gli sarebbero costati quasi nove anni di carcere. Oggi è ministro del Lavoro nelgoverno della signora Suchocka, la stessa carica che aveva ricoperto nella compagine di Mazowiecki, e se soffre nello sconfessare la sua anima di sindacalista, non lo lascia trasparire. Signor ministro, la Polonia restituita alla democrazia continua a navigare in brutte acque, il Paese vuole la trasformazione verso il capitalismo e la libera iniziativa delle imprese, però il percorso è ancora molto accidentato. Di chi la colpa? «I maggiori ostacoli sono stati offerti dall'approccio della società polacca e dall'anello debole della catena rappresentato dalla classe politica. La prima ha tardato nell'approfondire l'esame di coscienza, non si è subito resa consapevole dei mutamenti in atto mentre la seconda si dilaniava in guerre intestine. Nel frattempo crollava la casa. Certo, quella vecchia non ci piaceva, ci lamentavamo che era sporca, che puzzava ma non capivamo cosa erigere sulle mace • rie». E adesso cosa succede? «Tutti pretendono un clima di stabilità, però mancano le risposte in grado di soddisfarli. Quando la gente mi chiede cosa fare, io ribatto brutalmente: lavorate e lavorate sodo, se non trovate posto a Varsavia andate a cercarvi una collocazione in altre regioni della nazione. Bravo, dicono, tuttavia le infrastrutture attese da tre anni non esistono, mi rinfacciano che il purgatorio potrebbe durare ancora un altro triennio. Rischiamo quindi di continuare ad aggirarci in un infernale circolo vizioso. Ed ecco le frustrazioni, le velleità aggressive, il senso della precarietà. Per fortuna il potere attuale opera nel segno della democrazia e ciò è confortante». Parliamo proprio di questo, dello sciopero selvaggio condannato dai sindacati legali, da Solidarnosc agli ex comunisti dell'Opzz, che da sette settimane blocca la produzione della 500 alla Fsm di Tychy... «Un momento, facciamo un passo indietro. Sotto il cosiddetto socialismo gli operai si ritenevano il sale della terra, erano pagati meglio rispetto alla massa, godevano di privilegi. Con il passaggio all'economia di mercato instaurato il 1° gennaio 1990 è subentrata una diffusa credenza di essere emarginati dal processo riformista. Le cito un esempio. Anni fa un metallurgico sosteneva la famiglia, adesso la moglie che insegna a volte guadagna di più. Per lui è uno scandalo, non riesce a ritrovare i valori ai quali era abituato, si trincera dietro stereotipi ormai superati. Il caso di Tychy fa testo, lì l'antico modello di portare avanti le rivendicazioni salariali si indebolisce di giorno in giorno». Lei critica perciò i suoi ex compagni? «Direi piuttosto che il sindacato, inteso come tale, ha cessato di esistere. Un vero sindacato deve saper proclamare lo sciopero ma soprattutto deve capire il momento in cui terminarlo, altrimenti scade nel marasma dei movimenti non organizzati. Lo strumento di cui dispone ha una sua valenza se riesce ad inserirsi nei negoziati con la controparte, se riesce ad entrare nel dialogo. Ecco perché sostengo che scioperi del genere sono incompatibili con l'attuale situa- zione polacca. Comunque i sindacati restano una componente essenziale per la ricostruzione nazionale ed il governo intende offrire la possibilità di pattuire un solido contratto sociale. In tal senso ho formulato una serie di proposte che prevedono fra l'altro la partecipazione delle maestranze al novero delle decisioni aziendali». Qualcuno paventa la solu¬ zione di forza fino al ricorso estremo alla polizia per sgombrare gli stabilimenti occupati da parte dei dipendenti. Potrebbe accadere? «Preferirei non parlarne. Il problema mi sembra di altra natura. Gli scioperanti ad ulteriore conferma della debolezza del sindacato pretendono da noi l'apparenza della vittoria. San¬ no che non possono vincere, però vogliono salvare la faccia, non possono andare in giro a raccogliere proseliti ed ammettere di aver incrociato le braccia per niente. E adesso viene il difficile ed è una cosa che mi addolora molto. Vorrei che la spirale perversa si spezzasse, eppure se dovessimo cedere, lanceremmo un segnale ambiguo che potrebbe venire interpretato in manie¬ ra contraddittoria. Ci perderebbero tutti, loro, noi, la Polonia intera». Quanto pesa sulla vicenda la paura del partner straniero apportatore di capitali ma anche di efficientismo, che esige comportamenti sociali compatibili con le proprie esigenze? «Sì, bisogna ammetterlo. Esiste una vena xenofobica che può cambiare soltanto quando emergerà chiaramente la convenienza dei benefici che i finanziamenti esteri apportano al Paese, quando ognuno potrà rendersi conto che si può lavorare bene con i soldi giunti dall'esterno. Non esistono altre alternative, con le chiacchiere non si risolve nulla». Piero de Garzarolli Il ministro del Lavoro polacco Kuron Sotto il regime comunista è stato il vero tribuno delle battaglie di Solidarnosc ed ha subito una dura condanna detentiva a nove anni [FOTO AP]

Persone citate: Jacek Kuron, Kuron, Lech Walesa, Mazowiecki, Piero De Garzarolli, Suchocka

Luoghi citati: Danzica, Polonia, Varsavia