Il boia viveva come nel film di Aldo Cazzullo

Il boia viveva come nel film Nel Tennessee la storia di un profugo è la trama di «Music Box» > Il boia viveva come nel film Ungherese, guidava una «squadra della morte» che uccise donne e bambini Igiudici l'hanno incriminato, ora rischia l'espulsione e il carcere a Budapest Un ungherese scampa alla bufera nazista, si riconquista una vita negli Stati Uniti, una vecchiaia serena nelle province del Midwest. Fino a quando un giudice federale lo scova e gli sbatte in faccia un passato da carnefice delle Croci Frecciate, gli sgherri delle SS nella Budapest invasa. In tribunale ebrei, comunisti, partigiani lo accusano di torture e omicidi feroci. Lui nega, contrattacca, si sente male in aula, l'opinione pubblica si divide, poi un giorno si scopre che... Un'ottima trama per un thriller, e in effetti Costa-Gavras ne trasse un successo: «Music Box - Prova d'accusa», Orso d'Oro al FilmFest di Berlino, un intreccio inquietante che aveva gli occhi glaciali di Armin Mueller-Stahl e le forme di Jessica Lange. Solo che ora è successo davvero. Jozsef Szendi ha 77 anni, e fino all'altro ieri era un profugo ungherese rintanato in fondo alla campagna del Tennessee, al termine di una fuga rocambolesca cominciata dopo la guerra: un capofamiglia, un lavoratore. Oggi, per la procura federale degli Stati Uniti e per una parte dell'opinione pubblica americana, è un boia nazista. La stessa storia, la stessa accusa che nel film sconvolge la vita di un tranquillo operaio in pensione, Michael J. Laszlo. La realtà sembra essersi presa gioco della fantasia del grande Costa-Gavras, di Joe Eszterhas, lo sceneggiatore, una delle menti di Hollywood, di Irwin Winkler, il produttore, undici premi Oscar. Loro si erano ispirati alla vicenda di John Demjanjuk, l'operaio accusato e condannato come il boia di Treblinka. Non potevano immaginare che la storia avrebbe fatto molto meglio. Secondo i procuratori americani, durante la guerra Szendi faceva parte proprio della Gendarmeria reale ungherese, che deportò diciottomila ebrei nei lager nazisti in Polonia. «Lui era il più feroce di tutti. Comandava una squadra speciale. Guidava i pogrom nel ghetto di Budapest. Ha ordinato la morte di centinaia di donne e bambi- ni». Pare di sentire le parole dei testimoni d'accusa al processo di celluloide: scene che turbano, Costa-Gavras ha voluto che le comparse raccontassero in ungherese o nel loro inglese stentato gli scherni, gli stupri, il «Danubio blu rosso di sangue». Per risparmiare pallottole, i collaborazionisti legavano famiglie intere con un filo di ferro, ne uccidevano uno e gettavano quell'ammasso di corpi nel fiume gelato. «Quest'uomo non si chiama Michael, ma Mishka. E non è un operaio, è un criminale». Se lo sentirà urlare addosso anche Szendi, in tribunale. Contro di lui sono stati avviati due procedimenti, uno in Tennessee, l'altro a Washington. Rischia prima l'espulsione dagli Stati Uniti, poi il carcere in Ungheria: la stessa pena che attendeva Michael J. Laszlo. Ma il processo si farà senza Jessica Lange. Nel film l'imputato è difeso dalla figlia, un avvocato che strappa l'assoluzione. Poi scopre in un carillon, una «music box» appunto, le foto che inchiodano il padre, rigido nella sua divisa di poliziotto nazista. Szendi non corre questo rischio: anche lui ha una figlia, ma è una bambina di un anno. Aldo Cazzullo Jessica Lange e Armin Mueller-Stahl in un'immagine di «Music Box»