La sua holding fatturava 1500 miliardi

La sua holding fatturava 1500 miliardi La sua holding fatturava 1500 miliardi Ricco e temuto, nemmeno Cutolo riuscì a ferniario PERSONAGGIO IL PADRINO «PAPERONE» ANAPOLI VEVA sette anni, quando gli ammazzarono il padre. Lui non pianse, ma fece la faccia da duro e pronunciò una semplice frase con la voce carica di rabbia, davanti al vecchio maresciallo che copriva il cadavere con un lenzuolo: «Papà deve essere vendicato». Forse già allora «Carminuccio» Alfieri, un bambino rotondetto che gli amici avrebbero poi soprannominato «'o 'ntufato», il grassone, aveva fatto la sua scelta di vita. Vita da camorrista imprendibile, da vero e unico capo del crimine organizzato che per un decennio ha tenuto in scacco polizia, carabinieri e servizi segreti. Lui, latitante vicino casa, inseguito da un ordine di custodia per associazione mafiosa, ha continuato a dirigere un impero finanziario investendo i proventi delle estorsioni e del lotto clandestino in fabbriche che producono calcestruzzo e società di import-export, ristoranti e supermarket. E chissà con quanta soddisfazione apprese un anno fa di essere in vetta alla classifica dei malavitosi più ricchi d'Italia. L'idea venne a due giornalisti del «Mondo», che attribuirono alla sua holding proventi per 1500 miliardi, 500 più di Totò Riina. Ma come è possibile che un criminale miliardario si sia nascosto in un'anonima e disadorna villetta di campagna, invece di espa- triare verso lidi che gli avrebbero garantito una vita più piacevole e sicura? Carmine «'o 'ntufato» non si è mai separato dalla sua terra; non ha mai voluto allontanarsi dal paese dove è nato 49 anni fa, Piazzolla di Nola. «La spiegazione è semplice. Un vero boss tenta di non abbandonare mai la sua casa perché quello è il luogo in cui si sente più protetto», risponde uno degli ufficiali dei carabinieri che l'hanno arrestato. Che significa? «Per Alfieri si potrebbe coniare un nuovo termine: camorrista-mafioso. Ha importato nella provincia napoletana i metodi che Cosa Nostra ha applicato in Sicilia: si è assicurato il consenso della gente amministrando una giustizia che non ha nulla a che vedere con quella dello Stato, dirime contenziosi, recupera crediti, vendica torti subiti dagli altri che si rivolgono a lui, non a noi. Insomma, la gente è dalla sua parte, e quando ha potuto lo ha protetto e aiutato». A Piazzolla di Nola lo ricordano tutti, quando passeggiava lungo il corso principale con la pistola infilata nella cintura. Aveva 18 anni, un ragazzo che nessuno avrebbe mai osato fronteggiare. Lui andava diritto per la sua strada sfidando i vecchi guappi, armando i suoi amici che chiedevano in suo nome il «pizzo» ai commercianti. E quando nella seconda metà degli Anni Settanta il crimine organizzato fu sconvolto dall'avvento di un giovane e intraprendente boss camorrista, Raffaele Cutolo, fece la scelta giusta: si alleò con gli altri clan, e vinse. Da allora «don» Carmine è il numero uno del crimine che prospera all'ombra del Vesuvio. «Un punto di riferimento per le bande che infestano la provincia napoletana», assicura il colonnello Carlo Altiero, comandante dei carabinieri di Napoli che ha seguito tutte le fasi della cattura di Alfieri. Agli altri investigatori tocca snocciolare il rosario dei camorristi che al capo hanno giurato eterna fedeltà: a Nord del capoluogo le famiglie ricciardi e Contini, a Sud il clan dei Loreto, alle falde del Vesuvio le cosche di Fabbrocino e Visciano, ai quali l'altro ieri sono stati sequestrati palazzi, ville, terreni e un ippodromo da 12 miliardi. No, il carisma del padrino di Piazzolla di Nola non è stato minimamente scalfito dalla latitanza. Alfieri sparì dalla circolazione nell'estate dell'84, subito dopo una strage che a Torre Annunziata costò la morte di otto persone e il ferimento di altre dieci: un massacro che valse al boss alla macchia una condanna all'ergastolo in primo grado, e un'assoluzione in appello. I carabinieri continuavano a sequestrare i suoi palazzi, i supermercati, le società di comodo che spuntavano come funghi per garantire il riciclaggio dei miliardi provenienti dalle attività illecite. Non basta: il padrino riusciva a controllare anche la vita politica dei paesi dell'Agro Nolano. Nella villa del cugino si sono recati più volte sindaci e anche qualche aspirante deputato in cerca di voti. E lui continuava imperterrito a fare affari, anche con Cosa Nostra. Alfieri ha sempre mantenuto rapporti di buon vicinato con i colleghi siciliani. Buscetta raccontò che il boss di Piazzolla di Nola era stato in contatto con le cosche perdenti. Ma è una storia vecchia. Sicuramente più interessante e attuale è invece un'indagine che il sostituto procuratore di Napoli, Franco Roberti, avviò con il giudice Falcone. L'inchiesta partì in seguito al sequestro di un camion di armi: 24 mitra, esplosivo, congegni di puntamento per armi pesanti. L'arsenale fu scoperto vicino Nola: era destinato ad Alfieri che, si disse, avrebbe dovuto inviarlo in Sicilia. Il conducente del furgone, Leonardo Tranchina, di Partinico, era partito con il suo carico dalla Germania, dove i due magistrati si recarono per uno scambio di informazioni con gli investigatori tedeschi, convinti che in quel Paese esistesse una centrale del crimine in grado di fornire killer e armi per compiere omicidi in Italia. [f. mil.l Carmine Alfieri, preso dopo 9 anni

Luoghi citati: Germania, Italia, Napoli, Partinico, Sicilia, Torre Annunziata, Visciano