GARBOLI dal Vietnam senza amore

GARBOLI dal Vietnam senza amore la memoria. Adolescente a Viareggio, inviato speciale a Saigon: le guerre secondo un critico GARBOLI dal Vietnam senza amore VADO DI CAMAIORE DAL NOSTRO INVIATO Ci ha consegnato cronologie implacabili e ritratti di scrittori che sono diventati romanzi di vita, avventure dello spirito e non solo letture di libri, da Matilde Manzoni a Giovanni Pascoli, da Mario Soldati e Antonio Delfini a Natalia Ginzburg, per non citare che i lavori più recenti. Eppure il critico che scruta più a fondo di chiunque altro la vita, i palpiti minutissimi, la nascita misteriosa delle idee nelle opere che ama, diventa un giocatore molto abile nel depistare chi voglia fare altrettanto con lui. Cesare Garboli racconta, nella grande casa-biblioteca di Vado, incuneata in una valle stretta, quasi una fenditura, che sale verso le Apuane. Racconta e si sottrae. L'estate, qui, sta declinando velocemente, anche se siamo a pochi chilometri da Forte dei Marmi e Viareggio, teatri di scorribande giovanili, di grandi avventure ^e di incontri quando, come dice in Scritti ■ ' fervili (Einaudi) nel capitolo dedicato ad Antonio Delfini, lui, Garboli, incrociava l'amico scrittore e dandy «a notte fonda, o poco prima di giorno» rientrando a casa «fischiando Long ago and far away, o C'est si bon, con la solitudine dei vent'anni e la speranza di cibo dei cani che frugano tra i rifiuti». E' un'allusione appena, per metafora, alla leggenda di irresistibile tombeur des femmes che si trascina dietro da sempre, ignorandola e forse un po' vezzeggiandola. Quella era una piccola concessione, forse un lapsus. Ce n'è anche una per noi, prima di cambiare registro: il ricordo di una studentessa quindicenne, Isabella, ragazza che «aveva paura dei mitragliamenti, delle bombe e degli esami», un lampo di occhi verdi, lentiggini e capelli rossi nel '43 a Forte dei Marmi. «Ero sfollato da Milano con la mia famiglia - racconta -, avevo quindici anni, ma una corporatura come quella di adesso». I due ragazzi dovevano preparare gh esami per la prima liceale, e mano nella mano si guardavano intorno in quell'estate di guerra. Il futuro critico letterario non era affatto spaurito: gli piacevano anche i giochi pericolosi, come quello di attraversare la ferrovia che lo divideva da Forte dei Marmi quando già nel cielo si stagliavano gh aerei alleati per bombardarla. Un gioco insensato? La forza dell'amore? «Ma no - tuona Garboli improvvisamente allegrissimo, sprofondato in una delle sue cento poltrone -. La desideravo fisicamente, in modo terribile». Estati di guerra, senza epopea e senza retorica. Vennero prima della letteratura intesa come mondo intellettuale, frequentazioni, incontri e amicizie. Le estati dell'inconsapevolezza, forse. Soprattutto quella '44: «Che ho vissuto come in un racconto di Maupassant». «Non so perché mi vengano in mente proprio le estati legate all'esperienza belhca - racconta -. Eppure ora mi sembrano le più significative». In realtà sono due, che si affacciano nella quiete un po' gelida di Vado, quasi un eremo tra i primi castagni. Accanto all'estate del '44 se ne precisa un'altra nella memoria, sconosciuta e semisepolta: quella del '67, quando Garboli, giovane critico letterario emergen- te, prese un aereo e andò nel Vietnam. Corrispondente di guerra? «Sì. Ma accadde qualcosa di strano. Credo di essere stato l'unico corrispondente di guerra a non aver pubblicato neppure una riga». Da Saigon a Danang, anche lui percorse meticolosamente la geografia sanguinosa di quella guerra dove si accendevano illusioni, si forgiavano solidi miti, si scrìvevano cose di cui poi molti si pentirono. Aveva un contratto con La Fiera Letteraria, diretta da Manlio Cancogni. Dovevano essere corrispondenze particolari, da scrittore, ma non se ne fece niente. «Saldai il "debito" con una collaborazione letteraria l'anno successivo. In realtà, al ritorno qualcosa scrissi, ma l'ho sempre tenuto per me». Sul muro, una fotografia incorniciata ritrae il giovane Garboli, elegantissimo, appoggiato a un albero di mango. E' tutto quel che rimane del Vietnam? «No, rimangono gh odori, le sensazioni. A Danang affittai una bicicletta e mi misi a pedalare per la città. Sentivo un profumo che mi era famigliare, c'erano le tamerici, tutto mi ricordava Viareggio ai tempi della guerra. La guerra di retrovia, con gli alberghi requisiti dagli americani e i vietnamiti, che in larga misura parteggia¬ vano per loro, considerati un po' come da noi i fascisti da parte dei tedeschi». Era l'occasione per una bella serie di pezzacci a effetto, venne deliberatamente lasciata cadere: forse pesava il ricordo della Viareggio in guerra, città «semispopolata, dove la vita diventava impossibile». Garboli ricorda di aver letto sui giornali dell'assassinio di Giovanni Gentile, nell'aprile '44, pochi giorni prima che la sua famiglia lasciasse Viareggio. L'anno precedente, fra il 15 luglio e l'8 settembre, il tempo era trascorso come sempre, un'estate pigra, segnata dall'attesa. «Tutto cambiò con l'armistizio». La gente fuggiva, la vita era triste e difficile: ma intanto il ragazzo Garboli, per una di quelle coincidenze apparentemente incredibili, stava per ricevere dal caso un dono straordinario. «Nulla funzionava più, tranne il cinema Principi di Piemonte, una sala lussuosa che doveva avere un magazzino di pellicole rimaste lì chissà perché, come in una specie di Marienbad. In pochi mesi, vidi una serie ricchissima di film da cineteca: La bandera con Gabbi, il Don Chisciotte di Scialiapin, tutti i film di Duvivier, Alba tragica, Atlantide, i primi film di Pabst». L'inverno gh portò il grande cinema, l'estate successiva, quella «alla Maupassant», libri e avventura. «A 14^anni avevo letto Maupassant, appunto, e Dostoevskij, Stendhal, Cecov. Ma con il '44 ho scoperto Tolstoj e i miei "contemporanei', tutti insieme: Vittorini, Contini, Bo e gh ermetici, Rilke, Rimbaud, i simbolisti francesi, Croce, Marx, Piovene, Pavese, Melville, Kafka e soprattutto Montale. C'era una copia dattiloscritta di Finisterre, i componimenti destinati a diventare parte dell'edizione della Bufera, che arrivava dalla Svizzera e girava come un tesoro prezioso attraverso gh amici, di mano in mano». La guerra aveva portato eros, cinema, letteratura: tutto. Portò anche l'avventura, inconsapevole e febbrile. «Qui nella zona di Vado, in primavera, c'era la guerra partigiana, ancbe se ora qualcuno dice che è stata un mito. C'erano i morti, e la gente in carcere a Lucca. Verso maggio, forse perché mio padre si era compromesso dando denaro a una formazione partigiana, o forse per certi volantini distribuiti da un nostro lavorante, la mia famigli a sloggiò in tutta fretta. Andammo a Forcoli, un paesino vicino a Pontedera». In pratica, sulla Linea Gotica. «Aspettavamo gh Alleati: ma intanto continuavano i lavori agricoli, la vita dei campi mescolata alla presenza vicinissima della guerra, alle urla dei feriti nel vicino ospedale da campo tedesco. E poi c'erano le razzie di uomini che venivano condotti a lavorare in Germania. 10 sembravo già un adulto, e un mattino alle 5 dovetti fuggire con un mio giovane cognato. C'era la campagna aperta, il rischio della vita, l'arrampicarsi su un campanile e poi attraverso 11 tetto della chiesa la corsa verso la salvezza, nei boschi: fu una delle avventure più belle della mia vita». Per il ragazzo «alla Maupassant» quella era stata una notte «di trambusto manzoniano», ricorda Garboli. Per gli uomini del paese fu la tragedia, perché vennero tutti deportati. Ma in mezzo ad avvenimenti così drammatici, lo scenario stava ancora una volta per cambiare. Passavano i tedeschi in ritirata, «impressionanti macchine da guerra, armati di tutto punto», gh Alleati si annunciavano con i bombardamenti d'artiglieria, le donne e i ragazzi nel paese aspettavano nelle «catacombe», i rifugi sotterranei dove abitualmente si teneva a fermentare il vino. La guerra andò oltre, e con un camion rimediato grazie a un colpo di fortuna la famiglia si trasferì a Roma. «Ricordo ancora il cartello sùU'Aurelia, era il 25 luglio del '44». Cominciava una nuova vita, il mondo cambiava di segno e dimensione. Per Garboli fu una sorta di prodigio: «Io là ho visto Babilonia». La città era «il contrario di tutto quanto avevo vissuto fino ad allora. Era la felicità assoluta». Una metropoli levantina, favolosa e corrotta, molle, aperta a tutto. «Puttane, sciuscià, teatri, lo spreco, l'ubriachezza. Si scatenavano i bassi istinti, ma c'era come un senso di liberazione e felicità che in qualche modo pareva redimerli». Che lezioni di vita, per il quindicenne con l'aspetto da uomo! E anche di storia: «A teatro gh stessi autori che prima canticchiavano Giarabub mettevano in burla il regime di Mussolini. Fu una bella dimostrazione, per me, di relativismo storico». A 15 anni, Cesare Garboli scopriva la Roma della liberazione e dell'euforia, sbalzato dai racconti di guerra di Maupassant alla propria educazione sentimentale. Era quella la città in cui si consumava una straordi¬ naria «liberazione degli istinti». Tutto era permesso, tutto sembrava nuovo. «E poi nasceva, fortissima, l'esperienza politica : la mia scoperta del comunismo, evento non meno forte di quell'estate, si svolse lì». E oggi? Come valuta quella scoperta? «Il comunismo è stata un'esperienza drammatica del secolo, ma non rimpiango di averla attraversata. Sono diventato comunista nel '45, pur senza mai iscrivermi al partito. C'era per me una impasse insuperabile: da un lato la coscienza della libertà, un valore compreso sulle pagine di Croce ma che nasceva con le mie stesseviscere. Dall'altro c'era la mia'riluttanza a partecipare a idee di gruppo». Si sente ancora comunista? «Il comunismo è un'esperienza conclusa. Non il capitalismo, che nel suo aspetto trionfante ha un nucleo tragico e irrisolto. I veri mah del comunismo sono gh stessi del capitalismo: violenza, mancanza di rispetto per il prossimo, iniquità. Il male è sempre lo stesso, è il bene che si diversifica, che è creativo. Non rimpiango di essere stato da quella parte nella mia gioventù. Se non lo fossi stato, ora sarei diverso». Ma torniamo a quell'estate declinante e febbrile. L'autunno, quando fu il momento di tornare a scuola per la seconda liceale, era troppo ricco di ricordi e di esperienze, furori ed euforie. «Fu traumatico. Era ormai impensabile, non dico rientrare nei ranghi, ma anche nei banchi». In realtà Cesare Garboli stava entrando nella letteratura: l'accumulazione selvaggia di libri, autori, sogni prendeva forma, diventava un tessuto organico, pronto ad altre scoperte, ad altri stupori. Il primissimo fu quello che gli venne da una poesia letta nell'inverno su Mercurio, la rivista letteraria allora diretta da Alba de Cespedes. Erano versi di Nataha Ginzburg, dedicati (senza nominarlo) al marito Leone, morto in carcere a Regina Coeli il 5 febbraio '44. E, scrive Garboli in un celebre saggio dedicato alla Ginzburg, «il mio interesse si risvegliò e si tese perché si era già decisa, da qualche parte, quella misteriosa comphcità che esiste tra il mondo e i libri, tra il destino delle persone e il destino dei libri». Ormai l'avvenire di critico, il lungo percorso di amicizie e di letture, di libri e sfide intellettuali, era deciso: nato da una calda estate fra la Linea Gotica e Babilonia. Mario Baudino A Roma nel'44: «Mi parve di essere giunto a Babilonia: puttane, sciuscià, teatri, lo spreco, l'ubriachezza. Ma c'era anche un senso di libertà che redimeva tutto e tutti» «Credo di essere stato l'unico corrispondente dal fronte a non aver pubblicato nemmeno una riga. Ma ricordo odori, sensazioni, le tamerici: erano quelli della mia Versilia» A sinistra: Cesare Garboli in una foto scattata quest'anno da Giosetta Fioroni. Sopra: borsa nera al mercato di via del Lavatore a Roma ai tempi della Liberazione