Il «New York Times» nido di spie del Kgb di Paolo Passarini

Il «New York Times» nido di spie del Kgb Usa, bufera sulle penne «liberal»: le destre accusano, il quotidiano contrattacca Il «New York Times» nido di spie del Kgb WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE L'America «liberal» reagisce con sdegno a quello che giudica un grottesco e improbabile tentativo di richiamare in vita un mostro chiamato «maccartismo». Ma la scandalosa discussione appena esplosa sul consacrato maestro del giornalismo ultraprogressista Izzy Stone si sta trasformando in un processo perfino al New York Times, al Washington Post e a tutti quei grandi del giornalismo americano, che, criticando accesamente l'intolleranza dell'America della «guerra fredda», finirono, secondo alcuni, per accucciarsi ai piedi di Stalin o, addirittura, come sarebbe nel caso di Stone e di altri, finire nel libro-paga del Kgb. Tutto è cominciato nel giugno scorso, quando Herbert Romerstein, un inconcusso campione dell'anticomunismo, impiegato dal governo per combattere la disinformazione sovietica durante gli anni della «guerra fredda», ha pubblicato un articolo sul settimanale Human Events. Romerstein partiva da una frase, pronunciata in marzo a Londra dall'ex generale del Kgb Oleg Kalugin: «Avevamo un agente un giornalista americano molto conosciuto - con una buona reputazione, che tagliò i suoi rapporti con noi dopo il '56. Io stesso lo convinsi a riprenderli. Ma, nel '68, dopo l'invasione della Cecoslovacchia, disse che non avrebbe più preso soldi da noi». Anche se poi Kalugin, parlando con giornalisti occidentali, si rifiutò di rivelarne il nome, Romerstein sostiene di avere appreso da un'altra fonte che il generale si riferiva nientemeno che a Izzy Stone. Vale la pena ricordare chi fosse. Quando nacque a Philadelphia, il 24 dicembre del 1907, si chiamava Isidor Feinstein. Ma, attratto giovanissimo dal giornalismo, si firmò sempre I. F. Stone, detto «Izzy». Dopo aver lavorato per il New York Post e The Nation e aver scritto, nel frattempo, alcuni libri, «Izzy», fondò una propria lettera, una specie di piccolo giornale di quattro paginette scritto interamente da lui, che si chiamava I. F. Stone Weekly. Partì dopo aver raccolto 5300 sottoscrizioni a 5 dollari l'anno, prezzo che rimase immutato fino al gennaio '72, quando I. F. Stone Weekly cessò le pubblicazioni. Ma, nel frat tempo, i sottoscrittori erano di ventati 70 mila e comprendeva no, tra gli altri, Albert Einstein, Bertrand Russell e Eleanor Roo sevelt. Il foglio, pungente e mol to ben scritto, era letto da tutti quelli che facevano opinione e era influentissimo. Marilyn Monroe, con un gesto clamoroso e polemico, arrivò a regalarne un abbonamento a ciascuno dei membri del Congresso. Il bersaglio principale di Stone fu, per tutta la vita, 1'«establishment» militare americano e le sue principali imprese, la guerra di Corea e quella del Vietnam Gli attacchi di Stone all'America guerrafondaia erano devastanti e stabilirono le fondamenta per le grandi battaglie «liberal» del terzo quarto di secolo e anche dopo. Fu «Izzy» a definire Ro nald Reagan, non ancora assurto a gloria nazionale, come «un Tarzan repubblicano», a bollare Richard Nixon come «tricky», imbroglioncello. Ma Stone non amava neppure John Kennedy, che definiva «un politico tradizionale animato da un sovrano disprezzo per il popolo» e accettò i risultati della Commissione Warren sul suo assassinio, ripudiando le teorie della cospirazione. Ateo, ma «profondamente ebreo», Stone violò un altro tabù dell'«intellighenzia liberal» dell'East Coast, schierandosi con i palestinesi contro Israele. Così, quando morì, nel 1989, venne salutato sul New Yok Times come «un'incarnazione del Primo Emendamento», che protegge la libertà di pensiero; un uomo, come disse il conduttore di «Abc-Tv», Peter Jennings, nominandolo spettacolarmente «Uomo della Settimana» il giorno della sua morte, «il cui credo era scrivere la verità, difendere il debole contro il potente e lottare per la giustizia». Una biografia definisce «Izzy» Stone come «un moderno Tom Paine». All'articolo scandaloso di Romerstein fece seguito, il mese dopo, quello di un altro giornalista di estrema destra, Reed Inane, che pubblica un bollettino dal titolo Accuracy in Media, correttezza della stampa. Irvine non solo riportò, facendola propria, la tesi di Romerstein, ma aggiunse di aver saputo da «un'ex spia sovietica di alto rango» che «Stone sra solo uno tra parecchi prominenti giornalisti americani impiegati dal Kgb co- me agenti di influenza». Non dovevano passare informazioni, che del resto non avevano, ma influenzare l'opinione pubblica parlando male dell'America e bene dei suoi nemici. E alla lista Irvine aggiunse addirittura quel monumento di Walter Lippmann, morto da 18 anni, il tuttora attivo Jack Anderson e altre glorie della penna «liberal» i cui nomi sono forse meno noti al pubblico italiano, ma furono influentissimi negli Stati Uniti. Sul New York Post, un altro «columnist» conservatore, Ray Kerrison, approfondì l'attacco a Stone, marxista dichiarato e legato al partito comunista americano almeno fino al '56, ricordando il suo amore per Stalin, «di cui approvò l'assorbimento dell'Europa dell'Est» e che definì «uno dei giganti della nostra epoca, assimilabile a Ivan, Pietro, Caterina e Lenin nella co¬ struzione di quell'enorme edificio che è la Russia». Di Fidel Castro «Izzy» ammirava «la purezza rivoluzionaria che costituisce un fenomeno stimolante anche per la gioventù sovietica». Inoltre Stone aveva apertamente sostenuto che la guerra di Corea era stata scatenata da un attacco del Sud contro il Nord comunista di Kim II Sung, il che, qualunque sia l'opinione sulla guerra, «costituisce indiscutibilmente un falso storico». E' questo l'uomo, concludeva Kerrison, di cui il New York Times ha scritto che «ha mostrato ai giovani giornalisti a scrivere senza piegare la schiena ai potenti»? Il New York Times, a questo punto, è sbottato. In un editoriale anonimo, e quindi espressione della linea del giornale, ha etichettato Romerstein e compagni come «strani nuovi amichetti del Kgb», «pupazzi in mano agli apparatniki di Mosca», che hanno finito per credere a quella disinformazione che avevano sempre sostenuto di combattere. Questo degradava le loro «fandonie» al rango di «una complicità non solo ripugnante ma grottesca». Il Washington Post, con un editoriale analogo, ha sostenuto più o meno la stessa tesi. I «nuovi amichetti del Kgb» hanno risposto al fuoco, spedendo, tra l'altro, lettere indignate al New York Times, che correttamente le ha pubblicate senza risposta. Romerstein ha respinto quella che il New York Times aveva presentato come la «smentita di Kalugin», raccontando una sua telefonata successiva con l'ex generale del Kgb, in cui questi, continuando a rifiutarsi di fare il nome della spia, aveva però definito il suo articolo «corretto». «Kalugin - ha scritto Romerstein - negò solo di aver assoldato Stone. E, infatti, secondo la mia fonte, lui l'aveva solo ri-assoldato. Questo, tra l'altro, combacia anche con la frase da lui pronunciata a Londra. Poi, quando gli ho chiesto: "Chi l'aveva assoldato per primo?", mi ha risposto significativamente: "Non ricordo"». Come mai - chiedeva Romerstein - secondo la testimonianza del biografo di Stone, i suoi familiari ne hanno distrutto tutti gli archivi, quando in genere, anche per giornalisti meno importanti, li conservano come reliquie o li offrono a fondazioni? Proprio il «liberal» Jack Anderson, nell'intenzione di screditare l'Fbi, aveva scritto che, nei suoi incartamenti, l'agenzia aveva registrato un incontro tra Kalugin e Stone, seguito da un agente dell'Fbi in un ristorante di Washington. Irvine ha puntualizzato che altri due giornalisti erano presenti quando la sua «fonte» aveva fatto i nomi di Lippmann, Anderson, Joseph Kraft, Murrey Marder e Chalmers Roberts come gli uomini che «chiedevano ripetutamente a un funzionario dell'ambasciata sovietica materiale da usare». Tre di loro sono ancora vivi e Anderson ha tuttora una «column» sul Washington Post. Nessuno ha smentito. Kerrison si è vendicato in un altro modo. Ha ricordato la storia, ormai documentata da due libri, di Walter Duranty, il corrispondente da Mosca del New York Times negli Anni 30, che «nascose deliberatamente la vessazione e lo sterminio di 6 milioni di contadini per opera di Stalin». Le chiamava, nelle sue corrispondenze, «esagerazioni o malevola propaganda» o, anche, «pure assurdità». Questi articoli guadagnarono a Duranty un Pulitzer «per l'imparzialità del suo giornalismo» e la gratitudine di Stalin, che gli disse, nell'ultima intervista: «Lei ha fatto davvero un buon lavoro qui». Da vecchio Duranty cambiò versione, ma continuò a giustificare Stalin, dicendo che «non si può fare un'omelette senza rompere le uova». «A tutt'oggi - concludeva Kerrison - il New York Times non ha ancora informato i suoi lettori delle privazioni imposte intenzionalmente da Stalin ai contadini russi». Si saprà mai per certo se «Izzy» Stone e gli altri maestri del giornalismo «liberal» americano si spinsero fino a collaborare con il Kgb? Forse no. Forse non è vero niente. Ma nel pubblico si insinua, intanto, la convinzione che questi uomini abbiano accompagnato una battaglia giusta contro un'intolleranza inaccettabile, come la cultura «maccartista», a battaglie sbagliate volte a coprire altre intolleranze altrettanto inaccettabili. E, per quanto riguarda, più in generale, il bilancio della storia, sembra confermarsi ancora una volta che due torti opposti non fanno una ragione intera". Paolo Passarini «Duranty, nel 1930 era il corrispondente da Mosca: nascose le stragi di Stalin evinseilPulitzer» A fianco un disegno di Miran, tratto dalla rivista umoristica «Raposa»