TADINI Milano liberata a ritmo di jazz

TADINI Milano liberata a ritmo di jazzla memoria: 1945. Il pittore ricorda l'euforia e la gioia di vivere alla fine della guerra TADINI Milano liberata a ritmo di jazz Milano liberata a ritmo di jazz EMILANO MILIO Tadini, pittore, romanziere e poeta, abita in una casa di tre piani dall'aspetto semplice, in una strada silenziosa a pochi passi da piazzale Loreto. Sorridente, porta benissimo i suoi 65 anni, ne dimostra una cinquantina: capelli brizzolati, occhi azzurri vivacissimi, indossa pantaloni di foggia militare di tela verde scuro e una Lacoste azzurra. Ha l'aspetto di un uomo sportivo che vive molto all'aria aperta. «A Milano vado sempre in bicicletta e poi in studio si fa molto lavoro manuale», dice. La moglie Antonia, una donna simpatica che ha sposato nei primi Anni 50, ha preparato il pranzo che è servito in terrazza. Una grande terrazza con un pergolato che ha l'aspetto vissuto e piacevole di certi ristoranti del Nord Italia. Il pittore è appena tornato da Parigi con Antonia. Là il suo amico più caro è il pittore Valerio Adami. Tra gli amici italiani ci sono invece Oreste del Buono e Umberto Eco. A Parigi i Tadini hanno un piccolo appartamento dove andrebbero più spesso se non dovessero separarsi dal loro gatto, nero, molto amato e coccolato. Tadini mangia con appetito, c'è nei suoi gesti l'entusiasmo di un ragazzo. Parliamo di Giangiacomo Feltrinelli che era uno dei suoi amici. «A Parigi molti anni fa lessi per la prima volta Sotto il vulcano di Malcolm Lowry e suggerii a Giangiacomo Feltrinelli di pubblicarlo. Feltrinelli era un bravo editore, un uomo eccentrico che sognava di fare la rivoluzione». Il libro fu pubblicato. Siamo da lui per parlare dell'estate più bella della sua vita, ma l'artista vuole farci vedere la casa. La sua camera è una stanza spartana con una scrivania, un letto, pochi libri e un attrezzo per far ginnastica. Lo studio di Tadini si trova al pian terreno. Un grandissimo loft, dove su un tavolaccio di lavoro sono appoggiati in disordine vari bozzetti e schizzi per murali decorativi destinati a due navi da crociera. In fondo è appesa una grande tela: figure rosse che sembrano fluttuare in un cielo di un blu elettrico assai particolare. «Tengo qui un quadro alla volta. Poi li mando da Marconi, il mio gallerista. Questa era la casa di mio padre, dove abitava e dove c'era una tipografia che adesso è di mio nipote». Gli acuti di Tamagno Ma l'estate, l'estate più bella e più significativa della sua vita? «La più straordinaria e indimenticabile fu per me quella del 1945, la fine della guerra. Ricordo tutte le estati precedenti la guerra come fossero state una sola, nella villa di mio nonno in Brianza. C'era sempre l'opera nel sottofondo, la voce di Tamagno che troncava gli acuti a metà. Il tenore era la figura eroica della mia infanzia. Quel luogo emanava una quiete mitica. Nel dopoguerra trascorsi di nuovo lunghe estati felici con mia moglie e i figli piccoli in montagna». Il telefono squilla, è la prima volta ma seguiranno varie altre telefonate. Tadini è gentile, molto educato, di non molte parole. Ascolta il suo interlocutore e poi con un carboncino, che sta sul tavolo attorno al quale parliamo, su un foglio qualsiasi prende un appunto. Ha una calligrafia tipicamente da pittore: alta, molto precisa. Ogni volta che squilla il telefono lui sarà molto gentile e si scuserà con me e riprenderà il discorso là dove l'aveva lasciato. «L'estate del '45 fu tutta trascorsa a Milano nell'euforia inimmaginabile che fu la fine della guerra. Gli anni della guerra erano stati plumbei, precari; si vedevano ovunque morti per strada, si udivano gli spari e poi i bombardamenti; si scendeva in cantina; la sera si ascoltava Radio Londra. Ero compagno di scuola al liceo di Armando Cossutta e di Mino Guerrini. Facevo parte di un gruppo giovanile comunista, "Il fronte della gioventù". «Durante la guerra non si mangiavano grassi, solo degli orribili insaccati. Avevo le mani e i piedi con i geloni. Appena finì la guerra avevo così bisogno di grassi che mangiavo dei panini di lardo bianco. L'inverno era stato gelido, c'era sempre l'oscuramento per via del coprifuoco e la nebbia era fittissima. Ricordo che nella primavera del '45, di colpo, si riaccesero i lampioni: fu questo per me il segno della fine della guerra. Con un amico ricordo che abbiamo visto per strada una bancarella che vendeva limoni. Ne abbiamo comperati due e li abbiamo mangiati come fossero qualcosa di succulento. Da tempo non si erano più visti limoni a Milano. Nell'estate del '45 la voglia di vivere scoppiò come una festa continuata, ir¬ resistibile, senza tregua. Molte case erano state disastrate dai bombardamenti, ma in tutti i cortili di Milano la gente ballava e faceva festa fino a tarda notte. Si ballava una specie di jazzone ritmato, ricordo bene una canzone, Solo me ne vo per la città. Verso giugno occupammo una palazzina che diventò la sede del "Fronte della gioventù milanese". Era poco lontana da casa mia e da piazzale Loreto. Proiettavamo dei film russi sulla facciata della casa di fronte e li guardavamo dai balconi dove intanto bevevamo e chiacchieravamo. Il cortile era stato decorato da grandi totem coloratissimi, opera di noti pittori milanesi come Crippa, Dova, Peverelli. Era un'estate cal¬ da e lo stato d'animo euforico si identificava col clima festoso. Dalla nostra sede passavano Gillo Pontecorvo, Enrico Berlinguer, giovani, belli e anche ragazze splendide come Annabella Sansoni e Lou Leone». Dato che abitava accanto a piazzale Loreto, vide Mussolini impiccato? Tadini annuisce, cambia posizione, sembra che veda quell'immagine con grande chiarezza. «Sì, ricordo Mussolini e gli altri 15. Piazzale Lo- reto era stracolmo, la gente veniva a vedere i morti. Voleva rassicurarsi che Mussolini fosse davvero morto. Io avevo già visto Mussolini proprio lì, nello stesso punto di piazzale Loreto, dieci anni prima. Aveva fatto un'entrata trionfale, indimenticabile». Sul Mussolini trionfale, Tadini è sincero: «Mio nonno simpatizzava un po' con i fascisti, mio padre li odiava e io ero un po' preso in mezzo. Mi sembra di ricordare che sempre in quell'estate del '45 vidi anche Sandro Pertini in piazza del Duomo». Tadini sorride, ripensa un po' e mi dice: «Forse non l'ho visto veramente e sono rimasto semplicemente impressionato da alcune fotografie dell'epoca. Era comunque un momento euforico in cui le vicende private erano elevate a livello collettivo. Era una grande iniziazione per un adolescente! Le classi sociali per un po' di tempo sembravano essersi annullate nel sollievo generale, nella fratellanza. Quell'estate vivevo una storia d'amore con una mia compagna di scuola. Facevamo l'amore mentre sua madre andava a lavorare. Si ballava tutte le sere e si andava a mangiare alla mensa popolare. Io volevo diventare poeta e andavo in biblioteca a ricopiare le poesie di Eliot, tradotte da Montale. Nel dopoguerra vinsi un premio di poesia che mi fu dato da Eugenio Montale, Sergio Solmi, Carlo Muscetta. Le poesie furono poi pubblicate da Elio Vittorini suila rivista Politecnico a cui in seguito collaborai. Più tardi conobbi Montale, lo vedevo sovente a casa di Sergio Solmi, era il mio poeta italiano preferito». A Parigi con Dario Fo Era già andato a Parigi? «No, vi andai qualche anno dopo la guerra. Feci un viaggio a Parigi con Dario Fo. Lui studiava a Brera e voleva diventare pittore, io ero un giovane aspirante poeta imbevuto di poesia anglosassone: Eliot, Pound, Auden, Spende.-. Deambulavamo timidi per i caffè di St-Germain-des-Prés a Parigi, andavamo a vedere le mostre, ma non parlavamo con nessuno, non conoscevamo nessuno. Quando tornammo a Milano, Dario Fo raccontava già l'ossatura di Mistero buffo e lo faceva così bene, fino a notte fonda, che lo incitavamo a fare l'attore e non il pittore. Lui poi finì per lavorare nella rivista dove incontrò Franca Rame; faceva benissimo l'imitazione di Fausto Coppi. «Sempre in quegli anni, poco dopo, cominciò il "Circolo Diogene" che fu il precursore del Piccolo teatro. Ricordo la grande passione di Giorgio Strehler e di Paolo Grassi che leggevano dei testi teatrali la domenica mattina. Nel dopoguerra, a Milano, ci si vedeva in una birreria di piazza Cavour che era frequentata da giornalisti e amici come Lajolo, Del Buono, Giglio. Tra artisti invece ci si incontrava al bar Titta all'angolo di via Fiori Chiari e più tardi al bar Giamaica. In quegli anni un altro mio amico e aspirante poeta era Ugo Mulas che poi diventò fotografo. Fu Pietrino Bianchi, che dirigeva Settimo giorno, a chiedergli di scattare le sue prime fotografie». Com'era Milano occupata dai tedeschi? «Ricordo bene i carri armati tedeschi, gli stivali. Noi, della mia generazione, sopportiamo male il tedesco, è ancora troppo vivo il ricordo odioso di quegli ordini gridati in tedesco. Avevamo paura sia dei tedeschi sia dei repubblichini. Si sapevano condannati e quindi potevano fare qualunque cosa. Ricordo che a scuola, al liceo, distribuivano materiale di propaganda fascista. Un mio compagno ed io lo buttavamo sovente dalla finestra. Lui fu arrestato e più tardi finì a Mauthausen; io invece riuscii a scappare e rimasi per un po' di giorni nascosto a casa mia. Quando finì l'incubo della guerra, quei mesi furono di una tale felicità irripetibile e irraccontabile che perfino l'amore passava in secondo piano. Forse eravamo illusi e poi vi furono molte disillusioni. Io ero comunista ma dopo i fatti di Budapest mi staccai dal partito. In quell'estate della Liberazione c'erano naturalmente anche gli americani, i blue-jeans, le sigarette e l'allegria che portavano». Alain Elkann «In tutti i cortili la gente ballava efacevafesta fino a tarda notte» Emilio Tadini nel suo studio. Sotto Antonia, la moglie del pittore. A sinistra, Ugo Mulas, amico di Tadini: prima di diventare un celebre fotografo era un aspirante poeta Partigiani sfilano a Milano, il 25 aprile, su una fuoriserie requisita. Sopra Tadini con Umberto Eco e in alto a sinistra con Tullio Pericoli