Del Turco: quei venti minuti faccia a faccia con Trentin di Cesare Martinetti

Del Turco: quei venti minuti faccia a faccia con Trentin SINDACATO AL BIVIO Il segretario generale aggiunto racconta il dramma della Cgil Del Turco: quei venti minuti faccia a faccia con Trentin CERNOBBIO DAL NOSTRO INVIATO Ottaviano Del Turco arriva al supermeeting economico di Cernobbio con il quadratino rosso della Cgil all'occhiello della giacca un po' arruffata 24 ore dopo aver ritrovato sul tandem di comando del più grande sindacato italiano Bruno Trentin, quattro giorni dopo aver visto in faccia la morte della Cgil. Quando è stato, Del Turco? Mercoledì mattina, quando Trentin, dopo aver confermato le dimissioni, ha raccolto le sue carte ed è andato a sedersi in platea, come se avesse voluto segnare fisicamente il suo distacco. Ma non diciamo la morte della Cgil, diciamo la fine del sogno. Lei sogna? E' una metafora un po' abusata da quando Martin Luther King disse: ho fatto un sogno... Forse anche per provincialismo, ma per una generazione come la mia che ha vissuto il dramma di una sinistra solo litigiosa e che con le sue risse ha fatto la fortuna dei suoi avversari, la nuova Cgil era davvero l'inverarsi di un sogno. Quale sogno? Quello che Bruno Trentin, a Chianciano, nell'89, aveva chiamato la Cgil dei diritti. Un sindacato che faceva i conti con le persone in carne ed ossa e non solo con la tradizione delle «masse» e della «classe». Cosa ha detto a Trentin quando si è dimesso? Niente. Gli ho scritto una lunga lettera, ma non gliel'ho mai mandata. Per tutto agosto non vi siete sentiti? No, ma per noi due è un'abitudine rispettare reciprocamente la nostra privacy. La notte del 31 luglio, quando abbiamo firmato l'accordo a palazzo Chigi, ci siamo salutati. Io sono andato in Abruzzo, a Collelongo, da mia madre; lui in vacanza. Quando ha saputo delle sue dimissioni? La mattina dopo mi è arrivata per fax la sua lettera dalla Cgil. Sapevo che voleva presentarsi dimissionario a settembre, non quella stessa notte. Ha pensato di chiamarlo? Sì, poi non l'ho fatto. Avevo paura di sentire la conferma e allora ho rispettato la nostra consuetudine che era stata rotta una sola volta, quand'è scoppiata la guerra del Golfo. Anche quella volta ero a Collelongo, era Sant'Antonio, il mio santo preferito. Così, dopo tutto quello che era successo, vi siete rivisti solo mercoledì? Sì, e abbiamo parlato del più e del meno. Mi ha detto come aveva passato le vacanze, io gli ho raccontato come avevo trascorso i miei 17 giorni in Abruzzo, a dipingere i due quadri più grandi che abbia mai fatto: la fontana di villa Medici e piazza di Spagna vista da Trinità dei Monti. C'era imbarazzo tra voi? C'era una specie di ritrosia. Ho pensato di rispettarlo. Al tavolo della presidenza ero seduto vicino a Bertinotti, con il quale è molto più facile il confronto: sono così nette le nostre posizioni... E poi? Ho pensato che la cosa più leale era quella di dirgli come la pensavo. Per due giorni ci siamo guardati a distanza, i nostri sguardi si sono incrociati più volte per commentare gli interventi. Due giorni di parole che sembravano non arrivare mai al dunque, che non riuscivano a sciogliere il nodo. E così venerdì mattina ha deciso di parlargli? Sì, venti minuti sul divano verde del bar di Ariccia, come può accadere fra persone che si conoscono da venticinque anni, che sanno capirsi con le parole ma anche con i silenzi. Pensa che quel colloquio sia stato decisivo per fare ritirare le dimissioni a Trentin? No. Nelle decisioni di Trentin c'è sempre un grande mix di razio¬ nalità e di sentimento. E nessuno di questi elementi ha mai di per sé un valore risolutivo, salvo uno: decidere una cosa che ha valore per sé, ma anche per gli altri. Alla fine del nostro colloquio ho sperato che scattasse questo orgoglio in Bruno e che non prevalesse il rischio. Quale rischio? Lo conosco bene e so quale rispetto ha per il rapporto tra ciò che si pensa e ciò che si fa. Riconosco in lui un rigore che io non riesco ad avere e glielo invidio. Non sopporto questa sua passione di arrampicare in montagna... Anche in questo caso per invidia. Perciò ho temuto che il carattere esemplare del suo gesto gli avesse preso la mano. La Cgil non ha bisogno di busti nel Pantheon, ma dirigenti che ogni giorno sappiano indicare una via d'uscita, un onorevole compromesso. Ma proprio per rispetto alla Cgil Trentin ha detto nel direttivo che nessuno è indispensabile... E ha ragione. Non è giusto, non è generoso definirlo insostituibile. Ma ci sono dei passaggi nella politica nei quali le parole e i gesti diventano pietre. Certo che la Cgil non finisce dopo Trentin; nemmeno finisce la storia dei riformisti se Del Turco lascia il sindacato. Ma è giusto e lecito riconoscere che talvolta le vicende della politica portano un nome e un cognome. La politica vive anche della capacità dei suoi protagonisti di vincere le battaglie giuste e non solo nella bellezza dei gesti con cui si perdono. Lei dà molta importanza al fatto che Trentin sia rimasto segretario della Cgil. Perché? Nelle sue dimissioni ho visto l'incrinatura pesante del «sogno», l'ho vista negli occhi di quelli che sembravano accoglierle senza colpo ferire, la soddisfazione di chi tentava di mettere in crisi quel disegno e mi sono chiesto: a chi giova? E cosa si è risposto? E' difficile pensare che potesse giovare a quelli che ad agosto avevano lasciato il lavoro e a settembre non erano sicuri di ritrovarlo. Nelle dimissioni di Trentin ci ho visto la vittoria della bestia burocratica che divora nella sinistra i suoi figli migliori. Ho intravisto la soddisfazione di funzionari, «distaccati», consiglieri comunali, assessori che vivono le risse della sinistra come una specie di fortuna: più si litiga e meglio è. Pronti a fregare l'alleato possibile anche mettendosi d'accordo con il nemico di sempre. Del Turco, come risponde da socialista alla crìtica di aver pilotato la Cgil all'accordo sul costo del lavoro per appoggiare il governo del socialista Amato? Rispondo dicendo che vorrei un'aggressione al giorno alla mia indipendenza di sindacalista da parte del mio partito. Ma tutti sanno che purtroppo non è così. Vorrei un partito che si impiccia degli affari miei e non di altri affari. Mi piacerebbe che ci fosse un gruppo dirigente socialista che si riunisce e invece di approvare i corsivi sull'ovanti/ discute della crisi economica e degli effetti che ha sul mondo del lavoro, sulla vita dei pensionati, che si rende conto della necessità di un nuovo compromesso morale tra la politica e la gente. Come facciamo a dirgli che bisogna tirare la cinghia, che la festa è finita a quelli che non l'hanno mai fatta, se resiste un sistema che non gode più di alcuna fiducia, che si autoperpetua, che non sa più parlare alla gente? E' d'accordo con l'uscita di Martelli contro Craxi? Martelli ha fatto bene a rompere questo clima in cui ogni giorno il psi (mentre il problema è di tutti i partiti) viene impalato sui giornali. Perché non provare a rifare un partito che riscatti i valori del sociadismo e che riaffermi il valore dèlia partecipazione alla vita democratica che solo i partiti possono consentire? Torniamo alla Cgil e a venerdì sera. Quando ha capito che Trentin avrebbe ritirato le dimissioni? Quando si è alzato per parlare non sapevo a quali conclusioni sarebbe arrivato. L'ho ascoltato con attenzione, non ho ignorato le critiche che mdirizzava anche a me, ma in quel momento sapevo che la cosa più importante era che ritirasse le dimissioni. E quando lo ha detto mi sono alzato in piedi a battere le mani, il nostro sogno poteva continuare. Qui a Cemobbio un anno fa è partito il grido di guerra di Romiti a cui Forlani ha replicato accusando gli industriali di essere «pistoleri da Far West». Sono passati 12 mesi, il tasso di sconto è al 15 per cento, un centinaio tra politici e industriali sono finiti in carcere, la credibilità italiana all'estero è piuttosto bassa. Voltiamo pagina, noi della Cgil siamo pronti a fare la nostra parte. Cesare Martinetti «Vorrei che il psi discutesse della crisi anziché approvare i corsivi su Di Pietro Il partito si rinnovi, riscatti i suoi valori» A destra, Ottaviano Del Turco Nella foto in alto. Bruno Trentin, che ha ritirato le dimissioni da segretario generale della Cgil Del Turco: quei venti minuti faccia a faccia con Trentin SINDACATO AL BIVIO Il segretario generale aggiunto racconta il dramma della Cgil Del Turco: quei venti minuti faccia a faccia con Trentin CERNOBBIO DAL NOSTRO INVIATO Ottaviano Del Turco arriva al supermeeting economico di Cernobbio con il quadratino rosso della Cgil all'occhiello della giacca un po' arruffata 24 ore dopo aver ritrovato sul tandem di comando del più grande sindacato italiano Bruno Trentin, quattro giorni dopo aver visto in faccia la morte della Cgil. Quando è stato, Del Turco? Mercoledì mattina, quando Trentin, dopo aver confermato le dimissioni, ha raccolto le sue carte ed è andato a sedersi in platea, come se avesse voluto segnare fisicamente il suo distacco. Ma non diciamo la morte della Cgil, diciamo la fine del sogno. Lei sogna? E' una metafora un po' abusata da quando Martin Luther King disse: ho fatto un sogno... Forse anche per provincialismo, ma per una generazione come la mia che ha vissuto il dramma di una sinistra solo litigiosa e che con le sue risse ha fatto la fortuna dei suoi avversari, la nuova Cgil era davvero l'inverarsi di un sogno. Quale sogno? Quello che Bruno Trentin, a Chianciano, nell'89, aveva chiamato la Cgil dei diritti. Un sindacato che faceva i conti con le persone in carne ed ossa e non solo con la tradizione delle «masse» e della «classe». Cosa ha detto a Trentin quando si è dimesso? Niente. Gli ho scritto una lunga lettera, ma non gliel'ho mai mandata. Per tutto agosto non vi siete sentiti? No, ma per noi due è un'abitudine rispettare reciprocamente la nostra privacy. La notte del 31 luglio, quando abbiamo firmato l'accordo a palazzo Chigi, ci siamo salutati. Io sono andato in Abruzzo, a Collelongo, da mia madre; lui in vacanza. Quando ha saputo delle sue dimissioni? La mattina dopo mi è arrivata per fax la sua lettera dalla Cgil. Sapevo che voleva presentarsi dimissionario a settembre, non quella stessa notte. Ha pensato di chiamarlo? Sì, poi non l'ho fatto. Avevo paura di sentire la conferma e allora ho rispettato la nostra consuetudine che era stata rotta una sola volta, quand'è scoppiata la guerra del Golfo. Anche quella volta ero a Collelongo, era Sant'Antonio, il mio santo preferito. Così, dopo tutto quello che era successo, vi siete rivisti solo mercoledì? Sì, e abbiamo parlato del più e del meno. Mi ha detto come aveva passato le vacanze, io gli ho raccontato come avevo trascorso i miei 17 giorni in Abruzzo, a dipingere i due quadri più grandi che abbia mai fatto: la fontana di villa Medici e piazza di Spagna vista da Trinità dei Monti. C'era imbarazzo tra voi? C'era una specie di ritrosia. Ho pensato di rispettarlo. Al tavolo della presidenza ero seduto vicino a Bertinotti, con il quale è molto più facile il confronto: sono così nette le nostre posizioni... E poi? Ho pensato che la cosa più leale era quella di dirgli come la pensavo. Per due giorni ci siamo guardati a distanza, i nostri sguardi si sono incrociati più volte per commentare gli interventi. Due giorni di parole che sembravano non arrivare mai al dunque, che non riuscivano a sciogliere il nodo. E così venerdì mattina ha deciso di parlargli? Sì, venti minuti sul divano verde del bar di Ariccia, come può accadere fra persone che si conoscono da venticinque anni, che sanno capirsi con le parole ma anche con i silenzi. Pensa che quel colloquio sia stato decisivo per fare ritirare le dimissioni a Trentin? No. Nelle decisioni di Trentin c'è sempre un grande mix di razio¬ nalità e di sentimento. E nessuno di questi elementi ha mai di per sé un valore risolutivo, salvo uno: decidere una cosa che ha valore per sé, ma anche per gli altri. Alla fine del nostro colloquio ho sperato che scattasse questo orgoglio in Bruno e che non prevalesse il rischio. Quale rischio? Lo conosco bene e so quale rispetto ha per il rapporto tra ciò che si pensa e ciò che si fa. Riconosco in lui un rigore che io non riesco ad avere e glielo invidio. Non sopporto questa sua passione di arrampicare in montagna... Anche in questo caso per invidia. Perciò ho temuto che il carattere esemplare del suo gesto gli avesse preso la mano. La Cgil non ha bisogno di busti nel Pantheon, ma dirigenti che ogni giorno sappiano indicare una via d'uscita, un onorevole compromesso. Ma proprio per rispetto alla Cgil Trentin ha detto nel direttivo che nessuno è indispensabile... E ha ragione. Non è giusto, non è generoso definirlo insostituibile. Ma ci sono dei passaggi nella politica nei quali le parole e i gesti diventano pietre. Certo che la Cgil non finisce dopo Trentin; nemmeno finisce la storia dei riformisti se Del Turco lascia il sindacato. Ma è giusto e lecito riconoscere che talvolta le vicende della politica portano un nome e un cognome. La politica vive anche della capacità dei suoi protagonisti di vincere le battaglie giuste e non solo nella bellezza dei gesti con cui si perdono. Lei dà molta importanza al fatto che Trentin sia rimasto segretario della Cgil. Perché? Nelle sue dimissioni ho visto l'incrinatura pesante del «sogno», l'ho vista negli occhi di quelli che sembravano accoglierle senza colpo ferire, la soddisfazione di chi tentava di mettere in crisi quel disegno e mi sono chiesto: a chi giova? E cosa si è risposto? E' difficile pensare che potesse giovare a quelli che ad agosto avevano lasciato il lavoro e a settembre non erano sicuri di ritrovarlo. Nelle dimissioni di Trentin ci ho visto la vittoria della bestia burocratica che divora nella sinistra i suoi figli migliori. Ho intravisto la soddisfazione di funzionari, «distaccati», consiglieri comunali, assessori che vivono le risse della sinistra come una specie di fortuna: più si litiga e meglio è. Pronti a fregare l'alleato possibile anche mettendosi d'accordo con il nemico di sempre. Del Turco, come risponde da socialista alla crìtica di aver pilotato la Cgil all'accordo sul costo del lavoro per appoggiare il governo del socialista Amato? Rispondo dicendo che vorrei un'aggressione al giorno alla mia indipendenza di sindacalista da parte del mio partito. Ma tutti sanno che purtroppo non è così. Vorrei un partito che si impiccia degli affari miei e non di altri affari. Mi piacerebbe che ci fosse un gruppo dirigente socialista che si riunisce e invece di approvare i corsivi sull'ovanti/ discute della crisi economica e degli effetti che ha sul mondo del lavoro, sulla vita dei pensionati, che si rende conto della necessità di un nuovo compromesso morale tra la politica e la gente. Come facciamo a dirgli che bisogna tirare la cinghia, che la festa è finita a quelli che non l'hanno mai fatta, se resiste un sistema che non gode più di alcuna fiducia, che si autoperpetua, che non sa più parlare alla gente? E' d'accordo con l'uscita di Martelli contro Craxi? Martelli ha fatto bene a rompere questo clima in cui ogni giorno il psi (mentre il problema è di tutti i partiti) viene impalato sui giornali. Perché non provare a rifare un partito che riscatti i valori del sociadismo e che riaffermi il valore dèlia partecipazione alla vita democratica che solo i partiti possono consentire? Torniamo alla Cgil e a venerdì sera. Quando ha capito che Trentin avrebbe ritirato le dimissioni? Quando si è alzato per parlare non sapevo a quali conclusioni sarebbe arrivato. L'ho ascoltato con attenzione, non ho ignorato le critiche che mdirizzava anche a me, ma in quel momento sapevo che la cosa più importante era che ritirasse le dimissioni. E quando lo ha detto mi sono alzato in piedi a battere le mani, il nostro sogno poteva continuare. Qui a Cemobbio un anno fa è partito il grido di guerra di Romiti a cui Forlani ha replicato accusando gli industriali di essere «pistoleri da Far West». Sono passati 12 mesi, il tasso di sconto è al 15 per cento, un centinaio tra politici e industriali sono finiti in carcere, la credibilità italiana all'estero è piuttosto bassa. Voltiamo pagina, noi della Cgil siamo pronti a fare la nostra parte. Cesare Martinetti «Vorrei che il psi discutesse della crisi anziché approvare i corsivi su Di Pietro Il partito si rinnovi, riscatti i suoi valori» A destra, Ottaviano Del Turco Nella foto in alto. Bruno Trentin, che ha ritirato le dimissioni da segretario generale della Cgil

Luoghi citati: Abruzzo, Ariccia, Cernobbio, Collelongo, Trinità