Daniel, che fatica chiamarsi Bergman di Simonetta Robiony

Daniel, che fatica chiamarsi Bergman Daniel, che fatica chiamarsi Bergman «I miei genitori pensavano sempre e solo alla carriera» VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Attraverso percorsi diversi, figli di registi famosi, accomunati dal destino di essere rimasti anch'essi imbrigliati dal cinema, si incrociano sulla terrazza dell'Excelsior: uno è Daniel Bergman, figlio del mitico Ingmar, l'altro è Renzo Rossellini, figlio dell'altrettanto mitico Roberto. Uno è biondo, alto, forte, più giovane dei 30 anni che compirà lunedì, ed è a Venezia con «Il figlio della domenica», suo secondo film da regista, ricavato addirittura dalla sceneggiatura del padre ispirata a un racconto del libro autobiografico «La lanterna magica». L'altro è bruno, pallido, malinconico, impercettibilmente segnato dai postumi del gravissimo incidente automobilistico che stava per costargli la vita e che lo portò a trasferirsi cinque anni fa negli Stati Uniti lasciando Roma: a Venezia è ar¬ rivato per raccontare il progetto di un nuovo film di Sean Penn che lo vedrà tornare al lavoro di produttore. Daniel Bergman è ancora troppo all'inizio della sua carriera, troppo ignoto personalmente e troppo schiacciato professionalmente dal confronto con il grande Bergman per poter fuggire alle inevitabili domande su suo padre. Per di più, come autore, sembra muoversi sempre all'interno dell'illustre famiglia. Il suo primo film, che ha circolato solo in Svezia, s'intitolava «Percezione» ed era tratto da un racconto della madre, la pianista lettone Kabi Lazetei, una delle sette donne, tra mogli e compagne, che hanno vissuto più o meno a lungo con Bergman. Non serve al povero Daniel affannarsi, non serve precisare che fin da piccolo è stato attratto dal cinema, che a 12 anni, come nel film di Tornatore, s'è trasferito accanto a un vecchio proiezionista per impararne il mestiere; che per dieci anni è stato assistente prima, e operatore poi, su set tra cui anche quelli di suo padre ma soprattutto quelli di altri; che alla regìa è arrivato solo perché s'era stufato di collaborare alla riuscita di prodotti mediocri. Si torna sempre a lui, al grande Bergman, per tentare di capire come sia possibile che il figlio di un genio osi sfidare il genio sul suo stesso terreno. Lui, Daniel, una spiegazione personalissima cerca di darla: «La mia è sempre stata una famiglia pubblica: non ne ho avuta un'altra e ignoro come si possa crescere in altro modo. E' per questo che, un paio d'estati fa, quando mio padre mi propose di girare un film sulla sua infanzia, ho accettato subito. M'è parso un modo per poter conoscere ancora meglio le mie origini, la storia dei miei nonni, le radici dalle quali vengo». Una curiosità le- gittima che i ragazzi comuni soddisfano chiacchierando con i loro genitori. «E' più che una curiosità. Volevo capire quali errori erano stati fatti in passato e provare a vedere se avrei potuto evitarli». A che allude? «Mio nonno, per esempio, solo da vecchio s'è accorto che sua moglie vicino a lui era stata infelice. E mio padre e mia madre erano troppo presi dalle loro carriere per poter stare dietro a me bambino. Ec¬ co, io vorrei tentare di evitare questi sbagli». Renzo Rossellini, invece, è troppo adulto, troppo conosciuto, troppo professionalmente autonomo da suo padre Roberto perché qualcuno tenti ancora di parlare di lui come di un figlio. Il suo passato di produttore cinematografico e animatore culturale all'interno della Gaumont italiana è una vicenda di soli dieci anni fa, tanto importante e nota che non può suscitare meraviglia alcuna il fatto che Renzo Rossellini sia tornato adesso a esercitare il suo mestiere. A Venezia è arrivato accompagnato da Sean Penn, ex marito di Madonna, ma la cosa non gli può esser neanche ricordata, e dalla sua attuale compagna, Robin Wright, protagonista al Lido di «The playboys». L'idea è ambiziosa. Portare sullo schermo l'ultima sceneggiatura di Cassavetes «She's delo- vely» proposta prima della morte dal regista medesimo all'attore Sean Penn affidandone la supervisione a Oliver Stone. Sean Penn, infatti, da quando ha girato il suo primo film «Indian runner». l'attore solo non vuole farlo più, perché lo trova stupido: un film in cui è l'uno e l'altro potrebbe interessarlo. Ma lo spiega con una tale arroganza, che se dietro di lui non si sapesse esserci Stone, la casa di produzione americana di David Warner e Renzo Rossellini, nonché la Pool Production italiana di Rossellini medesimo e del suo amico Silvestri, al progetto sarebbe difficile dare fiducia. Rossellini però è ottimista: «Io ci credo alla collaborazione tra Europa e America per un cinema di qualità e Sean Penn unisce insieme quella popolarità e quel talento su cui vai la pena rischiare». Simonetta Robiony Renzo Rossellini è tornato a fare il produttore con «The playboys» Vuole lavorare con Sean Penn Nella foto grande: Daniel Bergman figlio di Ingmar sulla terrazza dell'Excelsior Nell'immagine piccola Renzo Rossellini figlio di Roberto