Venezia tutta droga e famiglia di Lietta Tornabuoni

Venezia tutta droga e famiglia Ieri in concorso al Festival «Fratelli e sorelle» e «L. 627». «Verso Sud» per la «Vetrina» Venezia tutta droga e famiglia Il film di Avati, intelligente, duro, divertente racconta una vita che non ha etica né valori VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO La famiglia disfatta e vacillante, la polizia antidroga povera e paralizzata, due registi che sfidano o smentiscono se stessi, due film arrischiati senza altro racconto che una situazione, un'atmosfera, i personaggi e il loro agire d'ogni giorno. «Fratelli e sorelle», primo film italiano in concorso, è una delle opere di Pupi Avati più coraggiose e amare, in cui la narrazione corale di rapporti famigliari rifiuta ogni consolazione finale, malinconia indulgente, ricomposizione speranzosa, astuzia narrativa. La famiglia è esplosa, sbriciolata, frammentata, dissociata in una lacerazione psicologica e affettiva accentuata dalla lontananza fisica: non tornerà a riunirsi, i più forti e pragmatici si adatteranno alla nuova sregolatezza, ai più fragili e sensibili resterà una ferita immedicabile. Famiglia, famiglie: una donna italiana che il marito ha lasciato dopo molti anni di matrimonio innamorandosi d'una studentessa, va negli Stati Uniti con i due figli ragazzi per scappare dal dolore, per tentare di riprendersi, per vedere la sorella Paola Quattrini che abita a St. Louis con il vedovo Franco Nero e con le due ragazze figlie di lui. Nella novità d'America, nel ritrovarsi dei gruppi, si rivelano i sentimenti, le sofferenze, le diversità dei caratteri: mentre una soap opera televisiva girata nel quartiere pare fare da contrappunto alla realtà, confermandola o parodiandola. Nelle due coppie di ragazzi e ragazze, si ripete il meccanismo dei vincenti e dei perdenti: il fratello riflessivo e timido (recitato con grande finezza da Luciano Federico) incapace di accettare il disfarsi della famiglia, insieme con la moglie abbandonata capace di ricominciare (Anna Bonaiuto, bravissima) sono i personaggi più riusciti. Ma commozione e divertimento si mescolano in tutti come nelle notazioni americane, alla maniera di un Avati duro come non era mai stato, intelligente più di sempre nel raccontare la vita indifferente senza etica né valori. Bertrand Tavernier sacrifica i propri tic visuali e sentimentali all'utilità sociale in «L. 627», protagonista Didier Bezace: il titolo è il numero della legge francese che punisce detenzione, traffico e consumo di droga, il film racconta quanto questa legge resti inapplicata, quanto risulti inutile e misera l'azione antidroga condotta sul territo rio da poliziotti parigini anche impegnati, seri, di buona vo lontà. Girando benissimo con attori bravi, il regista sceglie lo sche ma «procedurale» dei romanzi polizieschi di Ed MacBain sull'81° Distretto o dei telefilm della serie «Hill Street»: la vita quotidiana del gruppo antidroga d'un commissariato di polizia, con il suo poliziotto bravo e tenace, i suoi agenti e capi pigri, sfessati, opportunisti o ladri, la sua desolante povertà, i suoi conflitti, le sue operazioni anguste e mai risolutive, i suoi litigi sulle automobili scarse, i suoi ambienti squallidi, la sua mancanza persino di cancelleria o di carta carbone. Senza trama, senza emozioni forti, senza il glamour di «Miami Vice» né la violenza dei polizieschi d'azione, con il ripetersi monotono del lavoro d'ogni giorno tra tossicomani e piccoli spacciatori (30 grammi, 50 grammi), Tavernier costruisce un mondo, si fa seguire per due ore e mezza e dimostra coi fatti una ipotesi: in realtà la lotta contro la droga, oggetto d'infiniti convegni internazionali, declamazioni, promesse politiche, nel nostro tempo e nei nostri Paesi è ovunque puramente verbale, inefficiente: a chi dovrebbe combatterla non si danno neppure i minimi mezzi necessari, e non per caso. La miseria quotidiana metropolitana domina anche «Verso Sud», diretto dal trentacinquenne pugliese Pasquale Pozzessere, ex aiuto-regista di Avati e Maselli, interpretato da Antonella Ponziani e Stefano Dionisi, presentato alla Vetrina del cinema italiano. Il mondo degli emarginati, di quelli che dormono nei vagoni vuoti dei treni o per terra, che mangiano alla Caritas, che rubano in chiesa dalle cassette delle elemosine per comprare alcol e che non trovano mai un lavoro, è raccontato con lo sguardo sdegnato, compassionevole e affettuoso che Elsa Morante riservava ai suoi personaggi ne «La storia». In questo sottomondo, a Roma un ragazzo e una ragazza s incontrano, si mettono insieme, tentano per amore di riscattarsi dalla propria condizione, quasi riescono a formare una famiglia: ma sarà soltanto lei a salvarsi, con il figlio bambino. Il film, migliore del soggetto un poco troppo esemplare, è ben fatto, asciutto, per niente pietistico, ha dialoghi sobri ed esatti: Antonella Ponziani è quasi una rivelazione per realismo, misura e bravura. Lietta Tornabuoni Tavernier dimostra che la lotta alla droga si fa solo a parole Luciano Federico, Stefano Accorsi, Franco Nero in una scena del film di Pupi Avati «Fratelli e sorelle». Foto piccola: l'opera di Bertrand Tavernier «L. 627»

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